Figlia studentessa fuori sede: il padre divorziato deve pagare le spese per l’università?

Pubblicato il: 01/06/2023

Con l'ordinanza n. 15229/2023, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla spinosa questione della divisione, tra genitori separati o divorziati, delle spese straordinarie, cioè non comprese nell'assegno di mantenimento versato ogni mese da un genitore per le esigenze di vita del figlio.
Di questa problematica, che nella pratica si presenta molto spesso ed è causa di frequenti discussioni tra genitori, ci eravamo occupati proprio in un recente articolo (Separazione e divorzio: come si dividono le spese universitarie dei figli?).
In particolare, in quell'occasione ricordavamo che le spese cosiddette extra si dividono in spese "obbligatorie", che quindi vanno suddivise tra i genitori anche in mancanza di accordo tra loro, e spese che, invece, per essere suddivise tra mamma e papà devono essere state concordate preventivamente tra loro. Non sempre, però, questa divisione è chiara, come vedremo fra poco.

Tornando al caso di cui ci stiamo occupando, a richiedere l'intervento della Suprema Corte era stato un padre divorziato, che aveva proposto ricorso per cassazione contro la decisione della Corte d'Appello.
In particolare, i giudici di secondo grado avevano stabilito che l'uomo fosse obbligato a pagare il 50% delle spese universitarie della figlia.
Si trattava di spese piuttosto alte, dal momento che la figlia frequentava una famosa università privata del Nord Italia, e considerando che la ragazza era fuori sede, con l'inevitabile aumento di costi per l'alloggio.

Il padre contestava la decisione, poiché – sosteneva – non aveva approvato tali scelte ed anzi si era mostrato contrario, proprio perché, per le sue condizioni economiche, non poteva permettersi di sostenere costi così alti.

Invece, secondo la Corte d'appello, le spese per le tasse universitarie e per l'alloggio dovevano essere divise al 50% tra i genitori.

I giudici di secondo grado basavano la propria decisione sul fatto che la scelta di tale università era stata fatta, a loro avviso, nell'interesse della figlia, che aveva un brillante percorso di studi.
Inoltre, sempre secondo la Corte d'Appello, il padre non aveva provato di essere effettivamente impossibilitato a pagare la metà delle spese universitarie della figlia.

La Corte di Cassazione ha dato ragione al padre.
Infatti, secondo la Suprema Corte, la Corte d'Appello, per decidere sulla divisione delle spese tra i genitori, avrebbe dovuto compiere una specifica valutazione delle spese stesse.
In particolare, la Cassazione ha affermato che, se non c'è preventivo accordo tra i genitori sulla spesa e se uno dei due rifiuta di contribuire, o di rimborsare i costi anticipati dall'alltro, il giudice di merito ha il dovere di verificare che le spese corrispondano all'interesse del figlio.
Occorre dunque valutare l'entità della spesa in rapporto alla sua utilità e alla sua sostenibilità (rispetto alle condizioni economiche dei genitori).

Invece, secondo la Cassazione, ferma restando l'utilità per la figlia del percorso universitario che aveva scelto, la Corte di Appello non aveva effettuato quella specifica valutazione delle spese, che non erano state quantificate neppure in linea di massima.
Inoltre la Corte di merito non aveva verificato in concreto se il padre avesse effettivamente la capacità di sostenere il 50% delle spese in questione; ad esempio, non aveva preso in considerazione la possibilità dell'uno o dell'altro genitore di usufruire eventualmente di sgravi o detrazioni fiscali e simili, in modo da poter alleggerire il peso dei costi (sicuramente maggiori rispetto alla scelta di una università pubblica).
In altri termini, la Corte di Appello aveva deciso sulla base di valutazioni astratte e non di una analisi concreta dei costi.

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Insulti e discussioni sulle spese: sono maltrattamenti in famiglia?

Pubblicato il: 31/05/2023

Una recente pronuncia della Sesta sezione penale della Corte di Cassazione, la n. 21115/2023, torna ad affrontare il tema dei presupposti del reato di maltrattamenti in famiglia, previsto dall'art. 572 del c.p..

Questi i fatti.
Un uomo veniva tratto a giudizio per rispondere, tra l'altro, del delitto di maltrattamenti in famiglia nei confronti della moglie, per il quale veniva in effetti condannato dal Tribunale in primo grado.
Successivamente, l'uomo veniva assolto in appello con la formula "perché il fatto non sussiste".

Contro la sentenza della Corte di Appello la moglie, persona offesa costituita parte civile, proponeva ricorso per cassazione ai soli effetti civili.

Tuttavia, il ricorso veniva respinto dalla Suprema Corte.

In particolare, secondo la Cassazione, la valutazione delle prove raccolte in giudizio, effettuata dalla Corte d'Appello, era "inattaccabile".
La Cassazione concordava infatti con le valutazioni espresse dai giudici di appello, i quali avevano ritenuto non sufficientemente provati i fatti, per diverse ragioni.
Innanzitutto, la persona offesa non risultava abbastanza attendibile, a causa delle numerose contraddizioni emerse dalla sua testimonianza.

Inoltre, sulla base delle prove raccolte la Corte aveva escluso che il marito avesse tenuto comportamenti violenti, umilianti o vessatori.
Semmai, l'ambiente familiare era caratterizzato da conflittualità e litigiosità, e i contrasti erano reciproci. Vi erano, soprattutto, frequenti discussioni riguardanti sia le spese familiari sia l'educazione dei figli della coppia.

In particolare, secondo le argomentazioni della Corte d'Appello, fatte proprie dalla Cassazione, i litigi della coppia dovevano considerarsi, appunto, litigi, ovvero manifestazioni di una reciproca conflittualità; non erano dunque espressione di "vessazioni unilaterali ai danni della persona offesa" come avviene, invece, nel delitto di maltrattamenti in famiglia.

Anche le offese verbali, secondo le due Corti (di merito e di legittimità) non avevano la finalità di denigrare, cioè screditare, la persona della moglie, ma erano anch'esse espressione delle abitudini familiari, che contemplavano anche il linguaggio volgare.
Inoltre tali offese si inserivano in litigi in cui anche la moglie ricambiava le offese al marito, dunque in un contesto di reciprocità.

Tutto ciò era stato confermato anche dalle dichiarazioni dei due figli della coppia, i quali avevano descritto il rapporto pessimo con la madre, definita una provocatrice, e riferivano di contrasti reciproci tra i genitori, dovuti soprattutto al comportamento della madre.
Tali contrasti riguardavano soprattutto le modalità di gestione delle risorse familiari, in quanto la moglie lamentava che il coniuge le "faceva pesare" ogni spesa: dunque non si trattava di comportamenti dell'imputato con la volontà di umiliare la moglie, bensì, appunto, di litigi insorti per questioni economiche e dovuti a semplici divergenze di vedute.

In conclusione, quindi, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, ritenendo che nei comportamenti descritti non fosse ravvisabile il reato di maltrattamenti in famiglia.


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Auto acquistata con denaro dell’ex marito: prestito o regalo?

Pubblicato il: 30/05/2023

Una recente pronuncia della Corte di Cassazione (ordinanza n. 11664/2023) affronta nuovamente la spinosa materia dei rimborsi di spese fatte dai coniugi durante il matrimonio, e della sorte di questi pagamenti in caso di separazione e divorzio.
Nel caso specifico, un uomo aveva chiesto e ottenuto l'emissione di un decreto ingiuntivo per la restituzione delle somme date alla ex moglie affinché quest'ultima acquistasse un'autovettura per sé.
Per procurarsi il denaro l'uomo aveva addirittura acceso un finanziamento.
Contro il decreto ingiuntivo la ex moglie aveva proposto opposizione.

Tuttavia, sia il giudice di primo grado che la Corte di Appello avevano respinto l'opposizione proposta dalla donna.
In particolare la Corte di secondo grado evidenziava che la dazione del denaro non era stata contestata, così come il fatto che l'ex marito si fosse procurato la somma stipulando un prestito con una finanziaria; inoltre la somma stessa era stata in parte restituita.

La Corte, dunque, accoglieva la ricostruzione data dall'uomo, che in giudizio sosteneva di avere dato la somma alla moglie a titolo di mutuo.
Secondo i giudici di secondo grado, invece, non era attendibile la tesi difensiva della donna, la quale affermava, invece, di aver ricevuto il denaro titolo di mera liberalità, anche in considerazione del fatto che, quando era avvenuta la dazione, il matrimonio era già in crisi.
Inoltre, la somma stessa non risultava proporzionata rispetto alle sostanze e alla capacità di lavoro delle parti.

La ex moglie aveva quindi proposto ricorso per Cassazione, senza tuttavia avere successo neanche in quella sede.
Infatti, secondo la Suprema Corte, i motivi di ricorso erano infondati: le motivazioni della sentenza di appello si conformavano a un consolidato orientamento della stessa Cassazione.

In particolare venivano richiamate alcune pronunce (Cass. 17050/2014; Cass. 27372/2021), secondo cui "se è pur vero che chi agisce per l'adempimento di un obbligo di restituzione di somme che assume di avere pagato è tenuto a fornire la prova del titolo su cui fonda la sua pretesa, è anche innegabile che chi riceve il denaro altrui non è in linea di principio autorizzato a trattenerlo senza causa, e che la mancata prova da parte dell'attore della sussistenza di un contratto di mutuo, a giustificazione del diritto alla restituzione di somme che concretamente dimostri di avere versato, non elimina il problema di accertare se sia consentito all'accipiens di trattenere le somme ricevute, senza essere tenuto quanto meno ad allegare la causa che ne giustifichi l'acquisizione".

E ancora, secondo la Cassazione: "il nostro ordinamento annovera fra i suoi principi basilari quello dell'inammissibilità di trasferimenti di ricchezza ingiustificati, cioè privi di una causa legittima che giustifichi il passaggio di denaro o di beni da un patrimonio ad un altro. Ne discende che il rigetto della domanda di restituzione dell'asserito mutuante, per mancanza di prova della pattuizione del relativo obbligo, è condizionato anche dalla risoluzione della questione relativa alla sussistenza di una causa che giustifichi il diritto dell'accipiens a trattenere le somme ricevute, qualora questi non deduca alcuna valida causa idonea a giustificarlo".

In termini più semplici, la donna non aveva giustificato diversamente la ricezione della somma di denaro, ovvero non aveva provato di averla ricevuta per una diversa, valida causa.
La Corte ha, quindi, respinto il ricorso della donna, escludendo che la somma ricevuta dal marito per acquistare l'auto potesse essere considerata una donazione.


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IMU: conviene dare un immobile in comodato ai parenti stretti?

Pubblicato il: 29/05/2023

Con l’ordinanza n. 37346/2022 la Corte di Cassazione si è occupata della riduzione della base imponibile ICI, riguardo alle unità immobiliari concesse in comodato a parenti in linea retta entro il primo grado, che le utilizzano come abitazione principale.
Vediamo nel dettaglio cosa ha deciso la Suprema Corte.
In primo luogo, è necessario fare una breve premessa sulla normativa applicabile.
Ci riferiamo al comma 747, lett. c), della L. 160/2019.
Tale norma, in materia di IMU, stabilisce che “la base imponibile è ridotta del 50 per cento […] per le unità immobiliari, fatta eccezione per quelle classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9, concesse in comodato dal soggetto passivo ai parenti in linea retta entro il primo grado che le utilizzano come abitazione principale, a condizione che il contratto sia registrato e che il comodante possieda una sola abitazione in Italia e risieda anagraficamente nonché dimori abitualmente nello stesso comune in cui è situato l’immobile concesso in comodato; il beneficio si applica anche nel caso in cui il comodante, oltre all’immobile concesso in comodato, possieda nello stesso comune un altro immobile adibito a propria abitazione principale, ad eccezione delle unità abitative classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9. Il beneficio di cui alla presente lettera si estende, in caso di morte del comodatario, al coniuge di quest’ultimo in presenza di figli minori”.
Nell’ordinanza in esame, la Corte affrontato, nello specifico, l’ipotesi della concessione in uso tra comproprietari, ed ha espresso l’opinione che tale ipotesi non rientri nella previsione della norma che abbiamo appena citato.
Questo perché – secondo la Cassazione – il presupposto dell’esenzione pro quota per il comproprietario che l’abbia – o per i comproprietari che l’abbiano – destinato ad abitazione principale è fondato proprio sulla titolarità della quota di comproprietà e prescinde da una superflua concessione in comodato da parte del comproprietario.
Infatti, per il disposto dell’art. 1102, comma 1, del codice civile ciascun comproprietario ha il diritto di servirsi del bene comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto: dunque il singolo comproprietario non ha bisogno, per servirsi della cosa comune, di una concessione degli altri comproprietari per il godimento esclusivo dell’intero bene, in quanto tale godimento trova giustificazione nella sola spettanza della quota di comproprietà.
La Corte ha quindi affermato il seguente principio di diritto, che riguarda specificamente l’ICI ma che, secondo alcuni, sarebbe applicabile anche all’IMU:
«In tema di ICI, con riguardo all’eventuale previsione di un regolamento comunale che assimili ad abitazione principale i «fabbricati concessi in uso gratuito a parenti e affini entro il secondo grado che li utilizzino come abitazione principale», la fattispecie normativa è riferita alla sola ipotesi in cui il proprietario o il titolare del diritto reale di godimento conceda in comodato l’immobile ad un parente o affine entro il secondo grado, che non possa vantare su di esso alcun diritto reale o personale di godimento, per destinarlo ad abitazione principale per sé e per la propria famiglia; ne discende che non può rientrarvi la diversa ipotesi di concessione in comodato tra comproprietari del medesimo immobile, in quanto, il presupposto dell’esenzione pro quota per il comproprietario che l’abbia – o per i comproprietari che l’abbiano – destinato ad abitazione principale è fondato proprio sulla titolarità della quota di comproprietà e prescinde da una concessione in comodato da parte del comproprietario ivi non residente, che beneficerebbe, altrimenti, dell’esenzione pro quota – a differenza degli altri comproprietari – senza avere fissato la dimora abituale nell’immobile, in palese violazione dell’art. 1, comma 2, del D.L. 27 maggio 2008 n. 93, convertito, con modificazioni, dalla Legge 24 luglio 2008 n. 126».
Il principio espresso dall’ordinanza 37346/2022 rappresenta, per ora, un caso isolato e ha già suscitato diverse critiche tra i commentatori, anche perché, tra l’altro, non troverebbe alcun fondamento nelle norme.
Vedremo in futuro se la Cassazione cambierà il proprio orientamento o se confermerà la posizione espressa con la pronuncia in esame.

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Separazione: se il padre non mantiene i figli può avere l’affidamento?

Pubblicato il: 28/05/2023

Quando una coppia di genitori si separa, la questione più delicata è, naturalmente, quella di stabilire con chi vivranno i figli e quanto tempo trascorreranno con l’uno e con l’altro genitore.
In seguito alle riforme che hanno modificato il codice civile negli ultimi decenni, la regola generale è quella dell’affidamento condiviso, che consiste in una condivisione della responsabilità genitoriale, cioè di quell’insieme di diritti e obblighi che derivano dall’essere madre o padre.
La condivisione dell’affidamento non esclude che, per inevitabili esigenze pratiche, il minore viva per la maggior parte del tempo con uno dei due genitori (di solito, ma non necessariamente, la madre), e che frequenti l’altro secondo i tempi e le modalità stabilite dal giudice o comunque nell’accordo di separazione.
Negli ultimi anni, però, si è diffusa sempre di più la prassi dell’affidamento c.d. alternato, per cui i figli possono abitare sia con il padre che con la madre, ad esempio, a settimane alterne.
L’affidamento condiviso naturalmente non si esaurisce nel collocamento del minore, cioè nello stabilire quanto tempo il figlio trascorrerà con l’uno o con l’altro genitore; si tratta di qualcosa di più complesso, che comporta l’assunzione delle decisioni necessarie per la vita dei figli, il prendersi cura di loro e l’occuparsi delle loro esigenze.
In materia di separazione e divorzio e in genere di rottura dell’unità familiare (quindi anche in caso di famiglia di fatto) il criterio generale che deve ispirare la scelta del giudice è quello dell’interesse, morale e materiale, dei figli, come prevede espressamente il codice.
Ciò detto, la soluzione dell’affidamento condiviso deve essere valutata in via prioritaria; si può invece ricorrere all’affidamento esclusivo – quindi a uno solo dei due genitori – quando, secondo il giudice, l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore. Questa scelta deve essere precisamente motivata dal giudice.
Passiamo quindi a esaminare la sentenza del Tribunale di Milano n. 2992/2023, che ci fornisce un esempio di come il giudice è giunto alla decisione riguardante l’affidamento di due figlie minori in sede di separazione.
In tale giudizio la madre chiedeva – per il profilo che qui ci interessa – l’affidamento esclusivo delle figlie, mentre il padre insisteva per l’affidamento condiviso.
Nella motivazione della sentenza, dopo aver ripercorso i fatti di causa, il Tribunale dà atto delle “serie difficoltà del padre nel poter assumere un ruolo genitoriale concreto e sereno”, anche a causa di una sua importante dipendenza da sostanze stupefacenti (che era stata accertata, tanto che l’uomo veniva sottoposto a periodici controlli).
Secondo il Tribunale, infatti, il padre aveva espresso una buona disponibilità nel voler accudire e gestire le figlie, ma mostrava comunque una seria difficoltà nell'assumere responsabilità genitoriali, anteponendo i propri bisogni a quelli delle figlie.
Inoltre, l’uomo si disinteressava del mantenimento delle figlie e non contribuiva a quanto necessario al loro sostentamento e ai loro bisogni.
Nella vicenda, particolarmente delicata, erano intervenuti anche i servizi sociali.
Dunque, secondo il Tribunale, i ripetuti comportamenti del padre (abuso di sostanze stupefacenti, mancato mantenimento delle figlie) non potevano che aumentare, tra l'altro, la conflittualità tra i due genitori e impedire una utile e serena gestione delle figlie.
Perciò, la sentenza in esame concludeva che, allo stato (ed auspicando che l'uomo portasse avanti un programma di disintossicazione e di recupero), il padre non avesse sufficienti capacità genitoriali per occuparsi delle figlie, non essendo neppure in grado di riconoscere i loro bisogni e la loro sofferenza nonché di porsi in un atteggiamento responsabile e costruttivo per affrontare e superare le proprie problematiche dovute principalmente alla dipendenza da stupefacenti.
Pertanto, il Tribunale decideva per l’affidamento cosiddetto super-esclusivo alla madre, ai sensi dell’art. 337 quater del c.c., stabilendo che “la madre potrà assumere in via autonoma ogni decisione in materia di educazione, istruzione, salute e rilascio di documenti anche per espatrio”.

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Decreto bollette convertito in legge: tutto quello che c’è da sapere

Pubblicato il: 27/05/2023

È stato finalmente convertito il legge il cosiddetto “decreto bollette”, cioè il decreto – legge 30 marzo 2023, n. 34. Il testo del provvedimento, infatti, è stato approvato anche dal Senato dopo che il Presidente della Repubblica aveva bloccato alcune modifiche previste in sede di conversione.

Esaminiamo nel dettaglio le principali misure, previste dalla nuova legge per contrastare gli aumenti nel settore dell’energia, ma anche in materia di sanità e di adempimenti fiscali.

L’innovazione più importante è sicuramente quella del bonus riscaldamento, introdotto per fronteggiare gli aumenti dei costi dell’energia nei mesi più freddi.

Si tratta di un’agevolazione diretta a tutti i clienti domestici residenziali, senza limitazioni di reddito.
Si potrà usufruire del bonus riscaldamento a partire dal 1° ottobre e fino al 31 dicembre 2023.
Si tratta, in concreto, di un contributo mensile, erogato in misura fissa, se il prezzo del gas supera determinate soglie.
L'ammontare del bonus varia a seconda della zona climatica.
Sarà poi un decreto del Ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, a stabilire i criteri di assegnazione del contributo, mentre l’ARERA stabilirà importi e modalità di applicazione del bonus.
Ma le agevolazioni previste dal decreto non si fermano qui.
Fino al 30 giugno 2023 viene prorogato il bonus sociale bollette, destinato ai nuclei familiari con ISEE fino a 15mila euro.
Tuttavia, la soglia dell’ISEE è di trentamila euro in caso di nucleo familiare numeroso (nello specifico, con almeno quattro figli a carico: anzi, per tali famiglie il bonus opera fino a fine anno).
Per quanto riguarda il gas, vengono prorogati la riduzione dell’Iva al 5% e la riduzione degli oneri di sistema per il secondo trimestre del 2023.
L’Iva al 5% si applica anche al teleriscaldamento e alle somministrazioni di energia termica prodotte con gas metano.
Altra misura prorogata all 30 giugno 2023 è la riduzione dei crediti di imposta del 40 e del 45% per le imprese per l’acquisto di energia elettrica e gas naturale, in caso di aumento dei prezzi di energia elettrica e gas, avvenuto nel primo trimestre dell’anno, di almeno il 30% rispetto al corrispondente periodo del 2019.
Il Governo ha chiarito che i crediti d’imposta possono essere utilizzati esclusivamente in compensazione entro il 31 dicembre 2023, non concorrono alla formazione del reddito d’impresa né della base imponibile dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) e sono cumulabili con altre agevolazioni che abbiano ad oggetto i medesimi costi, a condizione che tale cumulo, tenuto conto anche della non concorrenza alla formazione del reddito e della base imponibile dell’IRAP, non porti al superamento del costo sostenuto.
C’è anche la possibilità di cedere i crediti a banche o altri intermediari finanziari.

Altre innovazioni, previste proprio dalla legge di conversione, riguardano il settore della sanità.
Si prevedono, infatti, sia la possibilità di utilizzare i medici “gettonisti” anche in reparti diversi da quelli di emergenza/urgenza, sia la facoltà di istituire presidi di polizia fissi nelle strutture ospedaliere, per contrastare il fenomeno delle aggressioni al personale sanitario.
Altre novità in materia fiscale sono il rinvio al 31 ottobre 2023 del termine di versamento della prima rata per la regolarizzazione delle violazioni di natura formale; la modifica dei termini per accedere al ravvedimento speciale, che potrà essere effettuato entro il 30 settembre 2023.
Vengono modificati inoltre i termini per la definizione agevolata delle controversie tributarie, la conciliazione agevolata e la rinuncia agevolata dei giudizi tributari pendenti in Cassazione, e i termini previsti per la definizione di acquiescenza.

Infine, sul versante del diritto penale, si introducono cause speciali di non punibilità per alcuni reati tributari (omesso versamento di ritenute dovute o certificate, omesso versamento di IVA, indebita compensazione di crediti non spettanti).

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Banche: devono consegnare gli estratti conto dopo i dieci anni?

Pubblicato il: 26/05/2023

Il Tribunale di Napoli contraddice la Cassazione in merito al periodo per cui la banca ha l'obbligo di consegnare al cliente gli estratti conto.
Ma procediamo con ordine.

La norma di riferimento è rappresentata dall'art. 119 del Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (di seguito, Testo Unico Bancario, o TUB).
L'art. 119 TUB stabilisce che il cliente ha diritto di ricevere dalla banca, alla scadenza del contratto e comunque almeno una volta l'anno, una comunicazione chiara in merito allo svolgimento del rapporto, in forma scritta o mediante altro supporto durevole preventivamente accettato.
Per i rapporti di conto corrente, tale comunicazione viene effettuata tramite l'invio degli estratti conto e con i riassunti scalari che il cliente riceve con periodicità annuale o inferiore all'anno.
Il quarto comma dell'art. 119 TUB stabilisce che il cliente (così come colui che gli succeda a qualunque titolo, ad es. l'erede, nonché colui che subentra nell'amministrazione dei suoi beni) ha diritto di ottenere, a proprie spese, entro un termine congruo che comunque non può superare i novanta giorni, copia della documentazione relativa a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni.
La banca può addebitare al cliente solo i costi per la produzione della documentazione in questione.
La banca ha anche l'obbligo di consegnare al cliente il contratto, come previsto dall'art. 117 TUB.
Infatti l'art. 117 TUB impone di stipulare i contratti bancari per iscritto, e obbliga inoltre la banca a consegnarne copia al cliente, sia al momento della firma che, eventualmente, in un momento successivo
Tale norma, dopo aver previsto a pena di nullità che i contratti siano redatti per iscritto, ne impone la consegna di un esemplare ai clienti, i quali hanno diritto a riceverne copia, sia al momento della sottoscrizione che successivamente, ad esempio in caso di smarrimento del documento.
Ora, la Cassazione (si veda l'ordinanza 35039/2022) ha ribadito che la banca ha l'obbligo di conservare la documentazione bancaria nei limiti del decennio.
Tuttavia, tale orientamento della Corte di Cassazione è stato messo in discussione dal Tribunale di Napoli con una sentenza del 26 aprile 2023.
Secondo il giudice partenopeo, infatti, la banca è obbligata a consegnare al cliente che ne faccia richiesta tutti gli estratti conto e i riassunti scalari e non solo quelli degli ultimi dieci anni.
In altri termini, va consegnata la documentazione a partire dall'inizio del rapporto.
Il Tribunale spiega così i motivi della propria decisione.
Secondo la sentenza in esame, il limite decennale previsto dall'art. 119 TUB riguarda solo la documentazione relativa a singole operazioni (ad esempio, un bonifico), ma non gli estratti conto e i riassunti scalari
Infatti, l'obbligo di rendicontazione periodica è una specificazione dell'obbligo di trasparenza, e viene adempiuto attraverso la consegna degli estratti conto e dei riassunti scalari, in cui è riportato il riepilogo delle voci che consentono di controllare l'andamento del rapporto.
Pertanto, obbligare la banca a conservare e, quindi, a consegnare gli estratti conto e i riassunti scalari solo per gli ultimi dieci anni significherebbe violare il diritto del cliente all'informazione e alla trasparenza.
Quindi, si afferma espressamente che il correntista ha il diritto di chiedere e ottenere dalla banca gli estratti conto e i riassunti scalari senza limiti di tempo, relativi all'intera durata del rapporto.
Questo diritto può essere esercitato inviando alla banca un’apposita richiesta ex art. 119, comma 4 TUB.
In assenza di riscontro, il cliente potrà ricorrere al giudice affinché emetta un decreto ingiuntivo con cui ordinare la consegna della documentazione.

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Scuole chiuse e genitori lavoratori: a chi spetta il bonus centri estivi?

Pubblicato il: 25/05/2023

Con l’avvicinarsi della chiusura delle scuole si ripropone per le famiglie il problema di dove far trascorrere ai figli le giornate estive mentre i genitori lavorano.
I centri estivi, o campus, come vengono spesso chiamati, rappresentano un’ottima soluzione: non tutti, infatti, hanno la possibilità di lasciare i propri figli a nonni e familiari in genere.
Inoltre, è sicuramente preferibile per bambini e ragazzi passare alcune ore in compagnia di coetanei, stringere magari nuove amicizie e partecipare alle svariate attività (ricreative, ludiche, sportive, corsi di lingua ecc.) che questi centri offrono.
Tuttavia, pagare un centro estivo rappresenta pur sempre un costo rilevante nell’economia delle famiglie; è possibile però, in presenza di alcuni requisiti, ottenere dallo Stato un contributo che copra, anche parzialmente, le spese per i campus.
Di recente l’INPS ha fornito tutte le informazioni necessarie.
Purtroppo, dobbiamo subito chiarire che il contributo per i centri estivi non è destinato a tutti i genitori che lavorano.
ll bonus infatti è riservato a dipendenti e pensionati della pubblica amministrazione iscritti alla Gestione Unitaria delle prestazioni creditizie e sociali; pensionati utenti della Gestione Dipendenti Pubblici.
Quindi non c’è possibilità di ottenere il bonus per il genitori che siano lavoratori del settore privato.
In cosa consiste il bonus?
Il bonus consiste in un contributo a copertura totale o parziale delle spese sostenute per la frequenza di un centro estivo diurno in Italia, per il periodo che va da giugno a settembre, della durata da un minimo di una settimana (cinque giorni) a un massimo di quattro settimane (20 giorni), anche non consecutive.
Sono stabiliti anche limiti di età per i bambini e ragazzi interessati: il bonus centri estivi riguarda minori di età compresa tra i 3 e i 14 anni, compiuti dalla data del 30 giugno 2023.
Come abbiamo già anticipato, inoltre, deve trattarsi di figli o orfani ed equiparati di dipendenti o pensionati della pubblica amministrazione iscritti alla Gestione Unitaria delle prestazioni creditizie e sociali e pensionati iscritti alla Gestione Dipendenti Pubblici (GDP).
Vediamo nello specifico come funziona il bonus.
Il contributo – precisa l’INPS – è riconosciuto in base al valore ISEE del nucleo familiare di appartenenza, in misura percentuale sull’importo più basso tra il contributo massimo erogabile, stabilito dal bando, e il costo settimanale del centro estivo.
Inoltre, il centro estivo deve essere organizzato da un unico fornitore, scelto da chi richiede la prestazione.
Nel dettaglio, quali costi copreil bonus?
Il contributo copre le spese connesse alle attività ludico-ricreative e sportive previste, le spese di vitto (merende e pranzo), eventuali gite e quant’altro previsto nel programma, nonché le coperture assicurative.
Vengono stabiliti anche precisi requisiti che il campus prescelto deve soddisfare.
In primo luogo, la partecipazione al centro deve essere finalizzata “alla gestione costruttiva del tempo libero dei giovani ospiti, durante l’interruzione estiva delle attività scolastiche”.

Inoltre, il campus deve svolgersi presso una sede conforme alle normative in materia di igiene e sicurezza, accessibile e priva di barriere architettoniche, con un locale idoneo alla distribuzione e al consumo di pasti preconfezionati monodose.
Il centro deve anche essere dotato di servizi igienici attrezzati e accessibili, locali al coperto, aree verdi accessibili e presidio di pronto soccorso.
Infine, anche il personale che si occuperà dei minori deve essere qualificato: “la struttura organizzativa del centro estivo diurno dovrà comprendere personale direttivo, educativo, ausiliario e addetto alla gestione dei giovani disabili in possesso dei requisiti previsti dalla legge per lo svolgimento di tali funzioni”.
Come e quando va presentata la domanda?
Chi è in possesso dei requisiti stabiliti dal bando potrà presentare la domanda entro e non oltre le ore 12:00 del 30 giugno 2023.
La domanda deve essere presentata esclusivamente in via telematica, accedendo al portale dell’INPS e utilizzando il servizio “Portale Welfare in un click”.
La procedura è piuttosto semplice: basta richiedere la prestazione accettando le condizioni previste dal relativo bando.
Sarà poi L’INPS a verificare, in automatico, la presenza dei requisiti nelle proprie banche dati o presso gli enti convenzionati.
Naturalmente, è possibile seguire l'avanzamento dell’iter accedendo al sito: infatti, nella sezione “Consulta richieste” della propria area riservata, si può verificare se la domanda è stata accolta o no.
Nel caso di domanda non accolta potrebbe essere necessario inserire ulteriori informazioni.

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Condominio: fotografare le auto in sosta è reato?

Pubblicato il: 24/05/2023

La convivenza in condominio, come sappiamo, non è sempre pacifica: spesso, anzi, dà origine a litigi e controversie che non rimangono solo nel campo del diritto civile, ma sfociano addirittura in denunce penali.
Ne è un esempio il caso affrontato da una recente sentenza della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, la n. 18744/2023.
Riassumiamo in breve i fatti.
Un uomo era stato tratto a giudizio per il reato di molestie, previsto dall’art. 660 del c.p..
All’imputato, in particolare, si contestava di aver causato molestia e disturbo ad altri condomini dello stabile in cui abitava, fotografando la loro autovettura con i due figli minori all'interno.
Il Tribunale aveva assolto l’imputato per particolare tenuità del fatto, possibilità prevista dall’art. 131 bis del c.p..
Contro la sentenza l’imputato aveva proposto ricorso per cassazione.

Va premesso che il reato di molestie è una contravvenzione, prevista dall’art. 660 c.p, che punisce il comportamento di chi, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero per mezzo del telefono, arreca ad altri “molestia o disturbo”.
La norma precisa che la molestia deve essere causata “per petulanza o per altro biasimevole motivo”.
Il reato è procedibile a querela della persona offesa e la pena prevista è l'arresto fino a sei mesi o – in via alternativa – l'ammenda fino a euro 516.

Ma torniamo alla sentenza della Cassazione n. 18744/2023.
La Suprema Corte ricorda, innanzitutto, che la contravvenzione di molestie o disturbo alle persone, prevista all'art. 660 c.p., può presentarsi come reato abituale (cioè, deve esservi una condotta ripetuta nel tempo), ma può anche essere commessa per mezzo di una sola azione.
Infatti – sottolinea la Corte – il reato di molestia di cui all'art. 660 cod. pen. non è necessariamente abituale, per cui può essere realizzato anche con una sola azione di disturbo o di molestia.
Deve trattarsi, però, di un’azione “ispirata da biasimevole motivo o avente il carattere della petulanza, che consiste in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire sgradevolmente nella sfera privata di altri”.
Inoltre, se l'azione molesta è unica, perché sussista il reato tale azione “deve necessariamente essere particolarmente sintomatica dei requisiti previsti dalla norma incriminatrice”.
Ciò significa che, per risultare molesto, il comportamento deve non soltanto risultare sgradito a chi lo riceve, ma anche essere ispirato da un motivo biasimevole, vale a dire riprovevole.
Oppure, in alternativa, l'atto per essere molesto deve rivestire il carattere della petulanza, che consiste in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire sgradevolmente nella sfera privata di altri.

Sulla base di tali principi la Suprema Corte ha, appunto, deciso il caso di cui ci occupiamo.
Infatti la Cassazione ha, in primis, escluso l'abitualità della condotta, perché all’imputato veniva contestato un unico episodio di molestie. Inoltre, lo stesso Tribunale aveva già giudicato non abituale il comportamento dell’imputato.
Ora, facendo applicazione dei criteri che abbiamo illustrato poco fa, la Cassazione ha escluso anche che il comportamento dell’imputato fosse caratterizzato da un “biasimevole motivo”.
Infatti, l’uomo aveva scattato le foto dell'autovettura delle persone offese perché essa era ferma in area in cui la sosta era vietata, per segnalare il comportamento scorretto all'amministratore del condominio.
Anzi, dal dibattimento svoltosi di fronte al Tribunale era emerso che in precedenza, sia l’imputato sia altri condomini aveva scattato simili fotografie, proprio perché nel condominio accadeva spesso che i veicoli venissero parcheggiati in aree in cui la sosta non era consentita.
Pertanto, la Corte ha concluso che non esistessero gli elementi costitutivi del reato di molestie e ha annullato senza rinvio la sentenza del Tribunale, pronunciando l’assoluzione dell’imputato con formula piena “perché il fatto non sussiste”.

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Licenziamento: cosa succede se il lavoratore non vuole partecipare ai corsi di formazione?

Pubblicato il: 23/05/2023

Di recente la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da un lavoratore, che sosteneva di essere stato illegittimamente licenziato dalla società datrice di lavoro.
Motivo del licenziamento, nello specifico, era stato il rifiuto, da parte del lavoratore, di seguire dei corsi di formazione.
Sia il Tribunale, in primo grado, che la Corte di Appello avevano dato torto al lavoratore.

Nel giudizio di merito era emerso, appunto, che il lavoratore licenziato aveva rifiutato di approfondire lo studio di alcuni sistemi operativi, come gli era stato richiesto dal suo diretto superiore gerarchico.
Questo rifiuto era risultato ingiustificato: infatti il lavoratore non era impegnato in altre commesse.
Per di più, l’attività formativa che il dipendente avrebbe dovuto svolgere sarebbe stata gratuita per il lavoratore stesso, sia nel senso che non avrebbe comportato spese a carico del dipendente, sia nel senso che egli non avrebbe neppure dovuto usufruire di permessi o sacrificare il proprio tempo libero.
Secondo la Corte di Appello, il lavoratore aveva tenuto un comportamento passivo e privo di spirito di collaborazione presso il cliente, rifiutando di svolgere attività di aggiornamento dei sistemi presso di lui, nonostante rientrassero nelle sue competenze sistemistiche generali.
Pertanto, il giudice di secondo grado aveva giudicato “di rilevante gravità” il comportamento del lavoratore, tale da giustificare il licenziamento, anche alla luce del carattere volontario di tale comportamento.
Anche la Cassazione ha respinto le richieste del lavoratore.
Infatti, secondo la Suprema Corte, era corretta la decisione della Corte di Appello, perché rispettava i criteri giurisprudenziali utilizzati per definire i concetti di giusta causa, giustificato motivo soggettivo e proporzionalità del licenziamento.
Sempre secondo la Cassazione, la Corte di Appello aveva correttamente motivato la propria decisione sulla base della gravità dell’insubordinazione commessa dal lavoratore.
La Suprema Corte, in particolare, sottolinea che il comportamento del dipendente risultava privo di qualsiasi giustificazione. Il rifiuto di svolgere l’attività di formazione era stato “persistente e volontario”, e costituiva violazione degli obblighi di diligenza e di esecuzione delle direttive date dai superiori.
La Corte, infine, precisa espressamente che le direttive che il lavoratore deve rispettare sono anche quelle riguardanti le “esigenze di formazione e accrescimento professionale necessarie per il proficuo impiego del dipendente”.

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