I rapporti tra lo sport ed il diritto penale: quando l’illecito sportivo diventa un reato

Pubblicato il: 08/03/2023

Con la sentenza n. 3284 del 31 gennaio 2021, la Quarta Sezione della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su un tema di grande impatto non solo pratico ma anche sociale. Prima di affrontare il percorso logico-giuridico espresso dagli Ermelllini, appare opportuno riepilogare brevissimamente la vicenda fattuale evidenziandone al contempo i nodi critici.

Segnatamente, durante partita amatoriale di calcio, a causa di un particolare momento di concitazione agonistica un “tackle” di un giocatore eseguito al precipuo scopo di evitare una manovra di contropiede cagionava ad un avversario plurime fratture scomposte agli arti inferiori. All’esito di dovuti accertamenti medici, alla persona offesa veniva prognosticata una incapacità di attendere alle ordinarie mansioni per una durata superiore a quaranta giorni. A prescindere dai risvolti civilistici della vicenda, la persona offesa denunciava l’autore dell’intervento – reputato oltre il normale illecito sportivo sanzionato con i c.d. “cartellini– che per l’effetto veniva condannato dal Tribunale di Lucca, con sentenza confermata in grado di appello, reputando i giudici integrati gli estremi del delitto di lesioni personali colpose ex art. 590 del c.p.. Ciò posto, in punto di diritto, la Corte di Appello ha ritenuto che la condotta dell’imputato non fosse giustificata dall’esercizio dell’attività sportiva ex art. 51 del c.p., atteso che determinate tipologie di “scivolata” sono vietate nel calcio a cinque. Per l’effetto, il giudice di seconde cure ha afferrmato che quel tackle andava al di là del mero gesto atletico e dunque non rientrasse nella c.d. area di rischio consentito: ovvero quel perimetro in cui l’ordinamento si accolla le vicende lesive causate nell’alveo di attività pericolose ma autorizzate perché socialmente utili.
La vicenda ha rinvenuto il proprio epilogo nel pronunciamento della giurisprudenza di legittimità che, intervenuta sul tema, ha fornito interessanti spunti circa la legittimità della c.d. scriminante sportiva ormai pacificamente riconosciuta come tale dalla precedente giurisprudenza, stante la prevalenza dell’interesse generale della collettività a che venga svolta attività sportiva rispetto all’interesse individuale relativo all’integrità fisica.

Orbene, la sentenza in commento si caratterizza per costituire un importante punto di svolta della configurazione dell’attività sportivo-calcistica nell’alveo del diritto penale. Secondo gli Ermellini, l’impostazione tradizionale che fonda il discrimen fra illecito sportivo ed illecito penale sull’operatività del c.d. rischio consentito non appare pienamente soddisfacente perché essa implica che l’attività sportiva costituisca una causa di giustificazione, laddove, invece, essa è attività lecita e regolata dalla normazione di ciascun specifico settore disciplinare, anche con riferimento al livello agonistico più o meno elevato.
La soluzione al problema de quo, pertanto, deve essere individuata nello slittamento del livello di analisi dal piano della antigiuridicità a quello della colpevolezza. L’accertamento condotto su questo piano permette di ragionare – soltanto dopo aver acclarato che la violazione della norma cautelare sia stata volontaria – in termini di colpevolezza dolosa ovvero colposa; in tale ultimo caso, costituisce passaggio imprescindibile la verifica della prevedibilità in concreto dell’evento dannoso. In sintesi, per aversi responsabilità penale, in omaggio all’art. 27 Cost. co. I, è necessario che l’azione possa prevedibilmente, con valutazione ex ante, causare il danno (concretizzazione del rischio), laddove l’assenza di prevedibilità non comporta colpevolezza se la norma disciplinare violata ha un fine diverso da quello di evitare l’evento dannoso (causalità della colpa).


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Il regime dell’invalidità delle delibere condominiali

Pubblicato il: 07/03/2023

Con la pronuncia n. 9838 del 2021, le Sezioni Unite della Cassazione sono state chiamate a districare un dibattito che da anni sollecita non pochi dubbi tra gli interpreti: l'invalidità delle delibere condominiali. Prima di esaminare nel merito l'approdo a cui è giunta la Suprema Corte, appare opportuno precisare che, come è noto , all'interno del Titolo II del Libro IV del c.c., la nullità ex art. 1418 del c.c. rappresenta il paradigma generale dell'invalidità; l'annullabilità, ex art. 1425 del c.c. e ss. è invece individuata in casi tipici e tassativi, non essendo ammessa una forma di annullabilità c.d. virtuale. Ciò tuttavia non deve portare, in omaggio ad un apodittico principio di simmetria giuridica, a pensare che il paradigma dell'invalidità contrattuale sia speculare ed assimilabile a quello di altri atti o negozi giuridici, dovendo l'interprete sempre tenere conto del contesto in cui operano i paciscienti e dei principi generali che governano quella particolare materia.

Ciò posto, il problema è stato affrontato proprio in materia di delibere condominiali perchè l'art. 1137 del c.c., nonostante faccia esplicito riferimento alla possibilità per i condomini dissenzienti di richiedere l'annullamento della delibera condominiale a decorrere da trenta giorni rispettivamente decorrenti dalla deliberazione o dalla comunicazione (se il condomino era dissenziente), non indica precisamente quali siano i motivi di annullamento ovvero quelli di nullità. Nel districare i dubbi sollevati dall'ambiguità normativa, le Sezioni Unite, enunciando un importantissimo principio di diritto, hanno affermato che sono affette da nullità le delibere condominiali che mancano ab origine degli elementi costitutivi essenziali; che hanno un oggetto impossibile in senso materiale o giuridico e da ultime quelle che posseggono un contenuto illecito in quanto contrastano con norme imperative, con l'ordine pubblico e con il buon costume. Al di fuori di questo preciso perimetro, si riespande il regime dell'annullabilità sicchè le deliberazioni assembleari adottate in violazione di norme di legge o del regolamento condominiale sono semplicemente annullabili e la relativa azione deve essere esercitata nei modi e nei termini di cui all'art. 1137 del c.c..

Per l'effetto di tale pronuncia, le Sezioni Unite prendono dunque posizione nella materia de quo: a differenza del congegno contrattuale ex art. 1321 del c.c., è l'annullabilità a costituire il paradigma generale dell'invalidità mentre le ipotesi di nullità sono circoscritte a forme residuali in cui probabilmente ab origine è inconfigurabile il concetto fenomenico stesso di delibera. Partendo da tale principio di diritto, la Corte ha per l'effetto risolto la questione sottoposta al suo scrutinio avente ad oggetto un giudizio di opposizione ad un decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali. Per l'effetto, si afferma che, in tali ipotesi, il giudice potrà sindacare la nullità della delibera assembleare sia ove la stessa sia stata dedotta dalla parte sia ove rilevata di ufficio e che, il relativo giudizio, potrà estendersi anche all'annullabilità purchè sia stata proposta in via di domanda riconvenzionale nell'atto di citazione di opposizione. Si segnala al lettore che tale pronunzia non solo è importante per l'indubbia portata definitoria del regime dell'invalidità delle delibere assembleari, ma risulta apprezzabile anche in punto di analisi economica del diritto. Segnatamente, la sentenza è espressione di tutela del principio di economia processuale, ritenendo ammissibile la domanda riconvenzionale di annullabilità ne medesimo giudizio, laddove un precedente indirizzo interpretativo della Corte di Cassazione aveva ritenuto possibile solo in un separato giudizio.


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Il sindacato del giudice sul contratto di assicurazione c.d. a richiesta fatta

Pubblicato il: 06/03/2023

Con la pronuncia n. 12908, la III Sez. Civile della Corte di Cassazione inserendosi nel consolidato filone giurisprudenziale inaugurato dalle precedenti Sezioni Unite ha confermato la compatibilità del meccanismo assicurativo costruito on claims made basis con il disposto dell'art. 2965 del c.c. nella parte in cui commina la nullità delle convenzioni volte ad aggravare l'esercizio del diritto di una delle parti del rapporto giuridico. Contrariamente a quanto affermato dagli Ermellini in un proprio precedente (cfr. sent. n. 8894 del 13/05/2020), se è vero che la clausola c.d. a richiesta fatta che aderisce al contratto di assicurazione ex art. 1882 del c.c. consente o preclude l'operatività della garanzia in dipendenza di un evento futuro ed incerto quale l'iniziativa di un terzo estraneo al contratto, ciò risulta perfettamente compatibile con la struttura tipica del contratto di assicurazione contro i danni.

Per meglio comprendere il decisum della Suprema Corte, appare opportuno ricostruire brevemente il dibattito giurisprudenziale circa l'ammissibilità di tale modello assicurativo. Secondo il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, recentemente avallato da due pronunce delle S.U., il modello di assicurazione della responsabilità civile ex art. 1917 del c.c. è tendenzialmente improntato al sistema americano del c.d. loss occurrence e consente alla copertura assicurativa di operare per tutte le condotte generatrici di domande risarcitorie insorte nel periodo di durata del contratto, indipendentemente dalla data della richiesta risarcitoria. Tale contratto tipico, tuttavia, si è dimostrato inadeguato a gestire le problematiche sollevate dai c.d. danni lungolatenti ed ha comportato il fallimento di molte compagnie assicurative costrette a risarcire danni che pur avendo la loro scaturigine nel periodo di copertura della polizza si sono manifestati solo molti anni dopo, impedendo all'assicuratore di accantonare il denaro per risarcire le eventuali perdite (es. mesotelioma pleurico). A tale esigenza risponde il modello assicurativo c.d. a richiesta fatta che, tipologicamente, si inquadra all'interno dell'art. 1322 del c.c. che consente alle parti di determinare il contenuto del contratto liberamente. Per l'effetto, il contratto assicurativo on claims made basis si caratterizza per il fatto che generalmente la copertura assicurativa è condizionata alla circostanza che il sinistro venga denunciato nel periodo di vigenza della polizza assicurativa; detta clausola, a sua volta, può essere pura, se la copertura assicurativa è condizionata solo alla circostanza che il sinistro venga denunciato nel periodo di vigenza della polizza, indipendentemente dalla data di commissione del fatto illecito; oppure spuria, se la copertura assicurativa è condizionata alla circostanza che sia la denuncia sia il fatto illecito intervengano nel periodo di efficacia del contratto.

Quanto al c.d. test di "meritevolezza" degli interessi perseguiti ex art. 1322 del c.c. comma II, la Cassazione ha ormai confermato con orientamento consolidato che il contratto de quo non incide sulla causa astratta del contratto di assicurazione poichè persegue comunque l'obiettivo di indennizzare il rischio dell'impoverimento del patrimonio dell'assicurato. Tra l'altro, si segnala che tale archetipo contrattuale è molto diffuso non solo in ambito internazionale ma soprattutto nel campo sanitario, dove ha trovato espressa menzione grazie alla legge Gelli-Bianco. Le conseguenze in punto di diritto da siffatta qualificazione giuridica appaiono a questo punto logiche: il modello assicurativo on claims made continua a collocarsi nell'area della tipicità e per l'effetto non necessita di un test circa la meritevolezza degli interessi perseguiti. Tuttavia, la stessa analisi è imposta al giudice attraverso lo strumento della causa in concreto ex art. 1325 del c.c. n.2 visto che il giudice potrà sindacare qual è lo scopo pratico e concreto del negozio ovvero la sintesi degli interessi che lo stesso è diretto a realizzare.

In conclusione, la pronuncia in commento si caratterizza per contribuire a rafforzare quel filone giurisprudenziale che vede nel giudice l'arbitro del sinallagma genetico del contratto potendo, attraverso il prisma della causa in concreto, accertare se vi sia stato uno squilibrio giuridico tra rischio assicurato e premio pagato e nel caso dichiarare nulla la pattuizione nella parte in cui rende più gravoso l'esercizio del diritto da parte dell'assicurato. Ciò non può però avvenire aprioristicamente come è accaduto nella pronuncia in commento, poichè rispetto all'art. 2965 del c.c. occorrerà valutare nel caso concreto se vi operi il suddetto squilibrio o se il contratto appaia adeguato a perseguire gli interessi che le parti hanno programmato nel contratto.


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Il rapporto tra gli affetti ed il diritto penale: l’art. 384 c.p.

Pubblicato il: 05/03/2023

Con la rivoluzionaria pronuncia n. 10381 del 2021, le Sezioni Unite della Cassazione hanno inaugurato un nuovo orientamento giurisprudenziale favorevole all'estensione analogica delle c.d. scusanti. Prima di esaminare nel merito le ragioni che hanno portato gli Ermellini a sconfessare il precedente orientamento giurisprudenziale, appare opportuno ad avviso di chi scrive, senza alcuna pretesa di esaustività, premettere al tema un brevissimo inquadramento di tipo sistematico-generale.

Nell'alveo delle c.d. cause di esclusione della punibilità, terminologia invero a-tecnica adoperata dal legislatore del 1930 all'art. 59 del c.p., la dottrina è solita annoverare una serie di istituti, eterogenei per disciplina e ratio. In particolare, si iscrivono all'interno di questo genus, le c.d. scriminanti o cause di giustificazione, le quali permettono all'interesse sotteso alla norma penale di "prevalere" rispetto a quello di cui è portatore il soggetto agente e per l'effetto di rendere lecito il "fatto scriminato" in tutto l'ordinamento. Non a caso, il legislatore si esprime nell'art. 54 del c.p. in termini di indennizzo e non di risarcimento del danno. Oltre alle scriminanti, si annoverano nel genus delle cause di esclusione della pena le c.d. cause di non punibilità in senso stretto. Queste operano a fronte di un fatto che rimane tipico e colpevole (o tipico, antigiuridico e colpevole nella prospettiva tripartita del reato) ma precludono la punibilità per ragioni di opportunità politica (es.art. 649 del c.p.). Da ultimo, il codice prevede nelle cause di esclusione della punibilità le c.d. scusanti. Si tratta di circostanze tipiche e tassativamente individuate dal legislatore che danno rilievo alla umana fragilità e che comportano l'inesigibilità di un comportamento umano conforme al diritto penale. Come anticipato, la summenzionata distinzione non rappresenta un mero esercizio dogmatico o di stile perchè le singole cause di esclusione della punibilità sottostanno ad una differente disciplina. Peculiare rilievo assume, tra queste, il valore dell'analogia che, rispetto alle circostanze scusanti, è tendenzialmente stata esclusa dalla giurisprudenza e dalla dottrina maggioritaria. Ciò almeno fino alla pronuncia in commento di cui ora è possibile apprezzarne le motivazioni.

Sul punto, secondo l'orientamento dominante ante S.U., la scusante ex art. 384 c.p. era invocabile esclusivamente da parte di chi abbia posto una fattispecie delittuosa per evitare un grave nocumento alla libertà o all'onore di un prossimo congiunto, nozione che il codice penale definisce con apposita norma (art. 307 c.p.). Le ragioni poste a fondamento del consolidato orientamento giurisprudenziale si rinvengono nella diversità tra il modello familiare imperniato sul matrimonio, protetto ex art. 29 Cost. e quello fondato sulla convivenza non formalizzata (art. 2 Cost.), che si basa sul affectio e non garantisce vincoli di stabilità essendo revocabile in qualunque momento. Per effetto di tale diversità, la Corte Costituzionale ha giudicato compatibile con la Costituzione il differente regime di scusabilità dell'art. 384 c.p., atteso anche che, la natura giuridica della scusante in questione, ne impediva una estensione analogica in quanto norma eccezionale.

L'impianto argomentativo di tale orientamento della Cassazione è stato completamente sconfessato dalle Sezioni Unite. La soluzione adottata, in particolare, prescinde da valutazioni di ordine politico circa la pacifica ammissibilità di un regime differenziato per la c.d. famiglia legittima e la convivenza non formalizzata. L'estensione ai conviventi more uxorio, infatti, è il frutto di una argomentazione puramente di carattere penale in quanto occorre, a detta delle S.U., rimeditare la natura giuridica della norma in questione in quanto appare ictu oculi espressione del supremo principio di colpevolezza, art. 27 Cost. comma I. Corollario applicativo di tale principio sarebbe quello di inesigibilità della condotta conforme al precetto penale, di cui l'art. 384 c.p. sarebbe espressione. In particolare, il convivente more uxorio vive lo stesso dissidio interiore che vive il congiunto: adempiere al precetto penale oppure aiutare una persona affettivamente legata ad evadere dalle conseguenze imposte dalle norme penali. Come statuito da autorevole dottrina, si tratta di casi in cui l'ordinamento non se la sente di incrudelire con la sanzione penali sicchè appare razionale e conforme ai principi summenzionati l'estensione analogica anche al convivente more uxorio della scusante prevista per i soli congiunti dall'art. 384 c.p.


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Attacchi di panico procurati: è stalking

Pubblicato il: 02/03/2023

La Corte di Cassazione con la sentenza numero 6323/2023 ha delineato i profili dell’imputabilità del reato di stalking se la vittima, a causa degli atti persecutori commessi dall’imputato nei suoi confronti, soffre di ansia ed attacchi di panico.

L’accusa di atti persecutori viene riqualificata dalla Corte d’Appello che riconosce i presupposti del reato nella sua forma consumata e non tentata, aumentando così la pena a un anno e due mesi di reclusione confermando però il risarcimento del danno previsto dal primo giudice.
L’imputato ricorre in Cassazione, evidenziando come nella riqualificazione del reato di atti persecutori in forma consumata, la Corte d’Appello abbia erroneamente considerato sussistenti gli eventi tipici della fattispecie in esame. Nello specifico, il cambiamento delle abitudini di vita della vittima e lo stato di grave ansia, non trovano riscontro nelle evidenze concrete. La stessa infatti non vive una condizione di ansia e stress, così come emerge dal suo miglior rendimento universitario e dalle foto postate sui social che la ritraggono speso sorridente.

Le doglianze portate avanti dalla vittima con convincono la Cassazione che ritiene infondato il motivo sollevato dal difensore. Gli Ermellini infatti danno rilievo al racconto della vittima e alle testimonianze non solo dei testimoni ma anche in parte confermato dall’imputato.

In relazione alla prova degli eventi tipici della fattispecie di reato di atti persecutori ex art. 612 bis del Codice Penale, la Cassazione evidenzia come la prova dei fatti si possa evincere dalla reazione della vittima alle condotte persecutorie. La stessa infatti ha cambiato il numero di telefono e ha iniziato a uscire solo accompagnata evitando i luoghi frequentati dal’ex fidanzato.

Consolidata giurisprudenza afferma infatti che la prova dell’evento del delitto di atti persecutori deve essere riscontrata nella reazione della vittima alle condotte poste in essere dall’imputato. Nello specifico, il grave e perdurante stato di ansia, frutto dell’idoneità astratta delle condotte a causare l’evento e in riferimento alle condizioni concrete, riscontrabile nello stato della vittima colpita da frequenti attacchi di panico e pensieri suicidi.


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Il rapporto tra la bancarotta fraudolenta per operazioni dolose e i reati omissivi

Pubblicato il: 01/03/2023

Con la sentenza numero 22765 del 9 giugno 2021, la Quinta Sezione penale della Corte di Cassazione ha stabilito che la fattispecie di bancarotta fraudolenta impropria commessa mediante operazioni dolose – ex art. 223 della l. fall. comma 2, n. 2, rappresenta costruito dal legislatore come a forma libera e, per l’effetto, integrabile da una condotta attiva o omissiva, costituente inosservanza dei doveri rispettivamente imposti ai soggetti indicati dalla legge, ex art. 40 del c.p. comma II, nel quale il fallimento è evento di danno. Secondo l’articolato apparato costruito dagli ermellini, inoltre, si ritiene che la fattispecie si realizza non solo quando la situazione di dissesto trovi la sua causa nelle condotte o operazioni dolose ma anche quando esse abbiano aggravato la situazione di dissesto che costituisce il presupposto oggettivo della dichiarazione di fallimento.
Ricostruendo brevemente le motivazioni della sentenza, la Cassazione evidenzia come il termine “operazione’” descriva in realtà un concetto semanticamente più ampio rispetto al termine “azione”. Quest’ultimo indica infatti una condotta meramente attiva quando invece la ratio del reato così come plasmato dal legislatore ricomprende l’insieme delle condotte tanto attive quanto omissive coordinate alla realizzazione di un piano.
Pertanto, in conclusione, la fattispecie oggettiva del reato in esame può ben essere integrata dalla violazione deliberata, sistematica e protratta nel tempo dei doveri degli amministratori concernenti il versamento degli obblighi contributivi e previdenziali, con prevedibile aumento dell’esposizione debitoria della società.
A completamento della sua analisi, la Cassazione si sofferma anche sul profilo soggettivo del reato in commento affermando come, distintamente dal reato di bancarotta fraudolenta per aver cagionato con dolo il fallimento della società, in cui è richiesto il dolo diretto di danno, nella fattispecie in analisi è richiesto solo il dolo generico ricomprendendo dunque un parco più ampio di condotte.
Il fallimento, dunque, è solo un effetto, dal punto di vista della causalità materiale, di una condotta volontaria, ma non intenzionalmente diretta a produrre il dissesto fallimentare. Ciò significa che non è necessaria la volontà diretta a provocare il dissesto, essendo sufficiente la consapevolezza di porre in essere un’operazione che, concretandosi in un abuso o in un’infedeltà nell’esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per la salute economico finanziaria della società, determini l’astratta prevedibilità dell’insolvenza.

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Il rapporto tra il diritto penale è il credo religioso: reati culturalmente orientati

Pubblicato il: 28/02/2023

Con una interessantissima pronuncia (sentenza n. 49306 del 22 novembre 2022, così depositata il 28 dicembre 2022), la terza sezione penale della Suprema Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in tema di “reati culturalmente orientati”, ribadendo il consolidato orientamento giurisprudenziale posto a tutela dei diritti protetti da elementari principi di civiltà giuridica. In particolare, la Cassazione si è occupata di delineare puntualmente il discrimen tra il reato ex art. 572 del c.p. e quello di abuso di messi di correzione, disciplinato dall’art. 571 del c.p.. La questione giuridica sottoposta all’attenzione degli Ermellini riguardava particolarmente l’incidenza, nella qualificazione del fatto, della nazionalità degli imputati e del loro credo religioso.

Prima di entrare in media res, la Cassazione si sofferma di nuovo sul significato di correzione, sintagma ripreso dall’art. 571 c.p.. Secondo l’interpretazione comunemente data dalla giurisprudenza di legittimità, il termine correzione deve essere correttamente interpretato come sinonimo di educazione. Per l’effetto, l’uso della violenza non può mai essere finalizzato a scopi educativi e ciò per diversi motivi: da un lato, il primato che l’ordinamento attribuisce alla persona umana, essendo la Costituzione una carta indubbiamente individualistica e personalistica; dall’altro, per la tutela del minore, passato dall’essere un oggetto di tutela al diventare un soggetto titolare di diritti. Da ultimo ed ad abundantiam, gli Ermellini ritengono che la violenza sia totalmente diseducativa in quanto con essa non è possibile perseguire un armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza e di solidarietà. Alla luce di tale analisi, è agevole rilevare che l'eccesso di mezzi di correzione violenti non è suscettibile ad essere ricompresa nel perimetro applicativo dell’art. 571 c.p., in quanto l’impiego sistematico di violenza quale ordinario trattamento del minore, anche là dove fosse sostenuto da animus corrigendi, integra il più grave delitto di maltrattamenti ex art. 572 c.p..
Entrando in media res, invece, ad avviso degli Ermellini le considerazioni sopra raggiunte non sono scalfite dal contesto culturale in cui gli episodi si inseriscono. Nel caso di specie, la difesa dell’imputato lamentava la mancata derubricazione del reato di maltrattamenti in quello di abuso dei mezzi di correzione, in quanto le condotte sono maturate in un clima frutto della rigida cultura degli imputati (egiziani). Ad avviso della Corte, tuttavia, la nazionalità e la religione degli imputati, con tutto il corollario applicativo di credi, convinzioni e principi su cui si basano, non valgono in nessun caso a scriminare ex art. 51 del c.p. il soggetto agente per le conso come non vale a scriminare l’agente dal reato ex art. 572 c.p. non potendosi avallare condotte ex art. 572 del c.p. in quanto in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano attraverso la Costituzione tutela. L’art. 29 Cost. in combinato disposto con l’art. 2 Cost. tutela infatti la personalità dell’uomo in ogni cellula sociale in cui dispiega la propria attività. Corollario applicativo di tale impostazione sono proprio i reati posti a tutela della famiglia che, nell’ormai orientamento consolidato della Cassazione, tutela non più il nucleo familiare in una concezione pubblicistica ma i diritti individuali delle persone che compongono la famiglia, che vedono tale luogo come primo posto di sviluppo della personalità e presidio dei diritti inviolabili.

In sintesi, metodi educativi (nel caso di specie i genitori spezzavano addosso ai minori pezzi di ferro, cinture e persino di cavi della televisione ai fini di percuoterli) che rappresentano il portato di una particolare religione non possono intaccare quel nucleo fondamentale di diritti umani riconosciuti dalla Costituzione e, per l’effetto, va confermata la configurazione del reato di maltrattamenti in famiglia quando questi siano connotati da modalità particolarmente violente e diseducative.


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I rapporti tra il diritto penale ed il gioco d’azzardo

Pubblicato il: 27/02/2023

Con la pronuncia n. 6087/2021, le Sezioni Unite della Cassazione si sono pronunciate sul complesso tema dell' appropriazione di danaro da parte dell'esercente concessionario di giochi elettronici di cui ex art. 110 del T.U.L.P.S. comma VI. All'analisi del decisum della pronuncia, appare opportuno riassumere brevemente il contesto normativo del c.d. gioco di azzardo lecito. Come è noto, l'esercizio e la gestione di giochi elettronici a "premi" è un fenomeno parzialmente autorizzato dallo Stato (seppure non incoraggiato) ed è regolato dai sensi del D.P.R. 640/72 da una concessione traslativa con cui il Ministero dell' Economia consente al concessionario di gestire una serie di apparecchi elettronici che risultano collegati ad una rete di controllo. Tali apparecchi, seppure di proprietà privata, devono essere muniti dell'apposito nulla osta rilasciato dall'ente concedente che attesta la conformità dei sistemi tecnologici alle disposizioni vigenti richiamate proprio dal T.U.L.P.S.. Nell'ambito di tale contesto normativo, il concessionario gestisce l'attività di gioco all'interno di un continuo controllo realizzato per tramite del collegamento alla rete telematica dei singoli apparecchi. Tale sistema di controllo interno è teso al controllo del flusso di denaro tanto in entrata, ovvero quello riscosso in conseguenza del gioco lecito, quanto in uscita ovvero la retribuzione delle vincite. Ciò permette anche di controllare eventuali flussi irregolari e di monitorare anche gli episodi patologici del gioco attraverso sistemi posti a protezione dell'utente che scommette.

Ciò premesso, le Sezioni Unite della Cassazione hanno abbracciato l'orientamento giurisprudenziale per il quale i proventi del gioco presenti negli apparecchi telematici, al netto del denaro restituito quale vincita agli scommettitori, appartengano di diritto alla pubblica amministrazione in quanto trattasi di denaro pubblico. Per effetto di tale qualifica, il privato concessionario gestisce in via esclusiva una attività propria della P.A. che rientra nel regime del monopolio legale e pertanto ne esercita anche i medesimi poteri di matrice pubblicistica. Alla luce di tale circostanza, le Sezioni Unite hanno confermato che il privato concessionario assume agli occhi del diritto penale la qualifica di incaricato di pubblico servizio ex art. 357 del c.p. poichè maneggia denaro pubblico in forza anche del titolo di legittimazione alla giocata che rende lecito un gioco d'azzardo. Tale qualifica è idonea a mutare, nel caso in cui il concessionario si appropri del danaro contenuto all'interno degli apparecchi, il titolo del reato dalla più tenue appropriazione indebita ex art. 646 del c.p. al più grave delitto di peculato ex art. 314 del c.p. in quanto si appropria di denaro destinato al pagamento del c.d. PREU (prelievo erariale unico) essendo tale somma di appartenenza della P.A. sin dal momento della sua riscossione.


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Il perimetro applicativo dell’art. 416bis.1 c.p.: gli atti intimidatori silenti

Pubblicato il: 27/02/2023

Con una articolata sentenza (n. 2137 del 14 ottobre 2022, depositata il 19 gennaio 2023), la Seconda Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul perimetro applicativo della circostanza aggravante ex art. 416 bis 1 del c.p., ricordando che la disposizione de quo ha la precipua funzione di reprimere il c.d. metodo mafioso, essendo connessa non tanto alla struttura del sodalizio criminale quanto alle concrete modalità che evochino la forza intimidatrice e omertosa tipica dell’agire “mafioso”.

Segnatamente, la Cassazione ritiene che ai fini della configurabilità della summenzionata circostanza aggravante non basta la mera presunzione di appartenenza ad un “clan storico”, tantomeno una organizzazione criminosa caratterizzata dall'impiego di numerosi uomini e mezzi o dall'uso di armi anche da guerra. Ciò perché tali espedienti non costituiscono "patrimonio" esclusivo delle organizzazioni di tipo mafioso (nel caso di specie, si trattava di una cellula criminale operante nella Regione Puglia), ben potendo essere utilizzate da gruppi criminali che, pur altamente "professionali" e organizzati, non rispondono alle indicazioni tipologiche previste dall'art. 416-bis c.p..

Ciò che occorre in omaggio all’art. 27 Cost. è invece l’effettivo ricorso al c.d. metodo mafioso che deve essersi concretizzato in un comportamento idoneo ad esercitare sulle vittime quella condizione di coartazione psicologica che deriva dalla prospettazione di un male ingiusto proveniente da un tipo di sodalizio criminoso dedito a molteplici ed efferati delitti. Se la ratio della disposizione aggravante è dunque punire quelle condotte che astrattamente gravitano attorno alla associazione criminosa, allora appare logico ritenere configurabile l’aumento sanzionatorio anche in presenza dell'utilizzo di un messaggio intimidatorio c.d. silente ovvero cioè privo di un'esplicita richiesta. Tuttavia, in omaggio al principio di offensività, è necessario che da tale messaggio emerga la carica lesiva della minaccia il che accade quando l'associazione abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l'avvertimento mafioso, sia pure implicito, ovvero il ricorso a specifici comportamenti di violenza o minaccia.

Entrando nel merito del decisum della sentenza, gli Ermellini ritengono che l'aggravante in commento sia configurabile in tutti i casi in cui le condotte dei soggetti agenti presentino un nesso eziologico rispetto all’azione criminosa poichè logicamente funzionali alla più pronta e agevole perpetrazione del crimine Ciò che rileva, dunque, non è tanto che il soggetto agente assuma la qualità di intraneus nel sodalizio criminoso quanto ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente e alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga a un sodalizio del genere anzidetto. Sotto il punto di vista probatorio, secondo la Cassazione non occorre neanche che sia dimostrata processualmente l’esistenza di un vero e proprio sodalizio, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia richiamino alla mente e alla sensibilità del soggetto passivo la forza intimidatrice tipicamente mafiosa del vincolo associativo.


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La legittima difesa nel reato di rissa

Pubblicato il: 26/02/2023

La Corte di Cassazione, all’interno della recentissima ordinanza n. 3462 del 2 dicembre 2022 (depositata in data 26 gennaio 2023), si è occupata di un tema delicato nella prassi, ossia quello relativo all’applicabilità, o meno, della scriminante della legittima difesa (art. 52 del c.p.) nel reato di rissa (art. 588 del c.p.).
Sulla scia di una granitica posizione della giurisprudenza di legittimità, la Corte di Cassazione ha ivi riconfermato la non applicabilità della causa di giustificazione in esame da parte di uno dei corrissanti coinvolto in una rissa: ciò in quanto mancherebbe la necessità della difesa tipica della scriminante della legittima difesa.
Al fine di comprendere pienamente la pronuncia in esame, occorre dapprima chiarire i requisiti tipici della legittima difesa, nonché, in generale, gli elementi strutturali del reato di rissa.
In particolare, la scriminante della legittima difesa prevede la non punibilità di colui che realizza un fatto di reato stante “la necessità di difendere un diritto proprio od altrui”: per la sua applicazione, è necessario il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, ovvero la proporzionalità della difesa rispetto all’offesa. In presenza di suddetti presupposti, il fatto tipico di reato è considerato dall’ordinamento privo dell’antigiuridicità, e pertanto non punibile: in particolare, il fatto è considerato lecito non solo penalmente, bensì in ogni settore dell’ordinamento giuridico (anche in quello civile e penale).
In merito al reato di rissa, il legislatore punisce, ex art. 588 c.p., chiunque vi partecipi (comma 1). Nel successivo comma, sono puniti, a titolo di circostanze aggravanti, gli eventuali eventi lesivi generatosi dalla rissa: in particolare, il codice enuncia quanto segue: “se nella rissa taluno rimane ucciso, o riporta lesione personale, la pena, per il solo fatto della partecipazione alla rissa, è della reclusione da tre mesi a cinque anni. La stessa pena si applica se la uccisione o la lesione personale avviene immediatamente dopo la rissa, ed in conseguenza di essa”.
Parte della dottrina ha qualificato la responsabilità penale enunciata dal legislatore all’interno del reato di rissa come oggettiva, in quanto imputata sine culpa. Ratio di tale scelta del legislatore si rinviene nel principio di autoresponsabilità, ossia nell’assunto per cui ogni soggetto presente alla rissa si è autodeterminato alla partecipazione, e pertanto ognuno di essi risponde (penalmente) degli eventi lesivi ivi generatosi, sebbene non voluti.
Da tale premessa, dunque, si deduce la legittima scelta della giurisprudenza prevalente di escludere, nella generalità dei casi, l’applicazione della causa di giustificazione della legittima difesa a favore del partecipante al reato di rissa: mancherebbero difatti, non solo la necessità della difesa di un diritto proprio o altrui, tipica dell’art. 52 c.p.; bensì anche il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, essendo la situazione di pericolo creata dagli stessi corrissanti, ovvero l’offesa arrecata agli altri non qualificabile come mera reazione, bensì azione lesiva. I partecipanti alla rissa sono difatti animati dall'intento reciproco di offendersi (volontà di scambiarsi insulti, percosse e lesioni), accettando così la situazione di pericolo nella quale volontariamente si espongono.
L’ordinanza in esame della Corte di Cassazione avalla il filone giurisprudenziale prevalente, non giustificando gli eventi lesivi nel reato di rissa sotto l’ala protettrice dell’art. 52 c.p. Tuttavia, all’interno della pronunzia in oggetto, la Corte non manca di ricordare la necessità di valutare, in sede giurisdizionale, la specificità dei casi concreti, essendo non sempre legittima l’esclusione della causa di giustificazione di cui all’art. 52 c.p. in materia di rissa.
In particolare, così come affermato da altre pronunce della Corte di Cassazione, è possibile applicare la scriminante della legittima difesa nel reato di rissa qualora l’azione subita dal danneggiato sia stata completamente imprevedibile e sproporzionata, ossia del tutto nuova ed autonoma, tale da giustificare una reazione uguale e contraria (cfr Cass. pen., sez. V, 16 novembre 2006, n. 7635).
Ed ancora, è possibile applicare la scriminante in esame anche qualora si verifichi uno scontro tra due gruppi contrapposti, di cui uno solo attaccante: il secondo gruppo, ossia quello che cerca di difendersi da aggressioni ingiuste altrui (in assenza di preventiva azione), può invocare la scriminante della legittima difesa in caso di eventi lesivi cagionati dal delitto de quo.

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