Il rapporto tra il diritto penale è il credo religioso: reati culturalmente orientati

Pubblicato il: 28/02/2023

Con una interessantissima pronuncia (sentenza n. 49306 del 22 novembre 2022, così depositata il 28 dicembre 2022), la terza sezione penale della Suprema Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in tema di “reati culturalmente orientati”, ribadendo il consolidato orientamento giurisprudenziale posto a tutela dei diritti protetti da elementari principi di civiltà giuridica. In particolare, la Cassazione si è occupata di delineare puntualmente il discrimen tra il reato ex art. 572 del c.p. e quello di abuso di messi di correzione, disciplinato dall’art. 571 del c.p.. La questione giuridica sottoposta all’attenzione degli Ermellini riguardava particolarmente l’incidenza, nella qualificazione del fatto, della nazionalità degli imputati e del loro credo religioso.

Prima di entrare in media res, la Cassazione si sofferma di nuovo sul significato di correzione, sintagma ripreso dall’art. 571 c.p.. Secondo l’interpretazione comunemente data dalla giurisprudenza di legittimità, il termine correzione deve essere correttamente interpretato come sinonimo di educazione. Per l’effetto, l’uso della violenza non può mai essere finalizzato a scopi educativi e ciò per diversi motivi: da un lato, il primato che l’ordinamento attribuisce alla persona umana, essendo la Costituzione una carta indubbiamente individualistica e personalistica; dall’altro, per la tutela del minore, passato dall’essere un oggetto di tutela al diventare un soggetto titolare di diritti. Da ultimo ed ad abundantiam, gli Ermellini ritengono che la violenza sia totalmente diseducativa in quanto con essa non è possibile perseguire un armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza e di solidarietà. Alla luce di tale analisi, è agevole rilevare che l'eccesso di mezzi di correzione violenti non è suscettibile ad essere ricompresa nel perimetro applicativo dell’art. 571 c.p., in quanto l’impiego sistematico di violenza quale ordinario trattamento del minore, anche là dove fosse sostenuto da animus corrigendi, integra il più grave delitto di maltrattamenti ex art. 572 c.p..
Entrando in media res, invece, ad avviso degli Ermellini le considerazioni sopra raggiunte non sono scalfite dal contesto culturale in cui gli episodi si inseriscono. Nel caso di specie, la difesa dell’imputato lamentava la mancata derubricazione del reato di maltrattamenti in quello di abuso dei mezzi di correzione, in quanto le condotte sono maturate in un clima frutto della rigida cultura degli imputati (egiziani). Ad avviso della Corte, tuttavia, la nazionalità e la religione degli imputati, con tutto il corollario applicativo di credi, convinzioni e principi su cui si basano, non valgono in nessun caso a scriminare ex art. 51 del c.p. il soggetto agente per le conso come non vale a scriminare l’agente dal reato ex art. 572 c.p. non potendosi avallare condotte ex art. 572 del c.p. in quanto in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano attraverso la Costituzione tutela. L’art. 29 Cost. in combinato disposto con l’art. 2 Cost. tutela infatti la personalità dell’uomo in ogni cellula sociale in cui dispiega la propria attività. Corollario applicativo di tale impostazione sono proprio i reati posti a tutela della famiglia che, nell’ormai orientamento consolidato della Cassazione, tutela non più il nucleo familiare in una concezione pubblicistica ma i diritti individuali delle persone che compongono la famiglia, che vedono tale luogo come primo posto di sviluppo della personalità e presidio dei diritti inviolabili.

In sintesi, metodi educativi (nel caso di specie i genitori spezzavano addosso ai minori pezzi di ferro, cinture e persino di cavi della televisione ai fini di percuoterli) che rappresentano il portato di una particolare religione non possono intaccare quel nucleo fondamentale di diritti umani riconosciuti dalla Costituzione e, per l’effetto, va confermata la configurazione del reato di maltrattamenti in famiglia quando questi siano connotati da modalità particolarmente violente e diseducative.


Vai alla Fonte

I rapporti tra il diritto penale ed il gioco d’azzardo

Pubblicato il: 27/02/2023

Con la pronuncia n. 6087/2021, le Sezioni Unite della Cassazione si sono pronunciate sul complesso tema dell' appropriazione di danaro da parte dell'esercente concessionario di giochi elettronici di cui ex art. 110 del T.U.L.P.S. comma VI. All'analisi del decisum della pronuncia, appare opportuno riassumere brevemente il contesto normativo del c.d. gioco di azzardo lecito. Come è noto, l'esercizio e la gestione di giochi elettronici a "premi" è un fenomeno parzialmente autorizzato dallo Stato (seppure non incoraggiato) ed è regolato dai sensi del D.P.R. 640/72 da una concessione traslativa con cui il Ministero dell' Economia consente al concessionario di gestire una serie di apparecchi elettronici che risultano collegati ad una rete di controllo. Tali apparecchi, seppure di proprietà privata, devono essere muniti dell'apposito nulla osta rilasciato dall'ente concedente che attesta la conformità dei sistemi tecnologici alle disposizioni vigenti richiamate proprio dal T.U.L.P.S.. Nell'ambito di tale contesto normativo, il concessionario gestisce l'attività di gioco all'interno di un continuo controllo realizzato per tramite del collegamento alla rete telematica dei singoli apparecchi. Tale sistema di controllo interno è teso al controllo del flusso di denaro tanto in entrata, ovvero quello riscosso in conseguenza del gioco lecito, quanto in uscita ovvero la retribuzione delle vincite. Ciò permette anche di controllare eventuali flussi irregolari e di monitorare anche gli episodi patologici del gioco attraverso sistemi posti a protezione dell'utente che scommette.

Ciò premesso, le Sezioni Unite della Cassazione hanno abbracciato l'orientamento giurisprudenziale per il quale i proventi del gioco presenti negli apparecchi telematici, al netto del denaro restituito quale vincita agli scommettitori, appartengano di diritto alla pubblica amministrazione in quanto trattasi di denaro pubblico. Per effetto di tale qualifica, il privato concessionario gestisce in via esclusiva una attività propria della P.A. che rientra nel regime del monopolio legale e pertanto ne esercita anche i medesimi poteri di matrice pubblicistica. Alla luce di tale circostanza, le Sezioni Unite hanno confermato che il privato concessionario assume agli occhi del diritto penale la qualifica di incaricato di pubblico servizio ex art. 357 del c.p. poichè maneggia denaro pubblico in forza anche del titolo di legittimazione alla giocata che rende lecito un gioco d'azzardo. Tale qualifica è idonea a mutare, nel caso in cui il concessionario si appropri del danaro contenuto all'interno degli apparecchi, il titolo del reato dalla più tenue appropriazione indebita ex art. 646 del c.p. al più grave delitto di peculato ex art. 314 del c.p. in quanto si appropria di denaro destinato al pagamento del c.d. PREU (prelievo erariale unico) essendo tale somma di appartenenza della P.A. sin dal momento della sua riscossione.


Vai alla Fonte

Il perimetro applicativo dell’art. 416bis.1 c.p.: gli atti intimidatori silenti

Pubblicato il: 27/02/2023

Con una articolata sentenza (n. 2137 del 14 ottobre 2022, depositata il 19 gennaio 2023), la Seconda Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul perimetro applicativo della circostanza aggravante ex art. 416 bis 1 del c.p., ricordando che la disposizione de quo ha la precipua funzione di reprimere il c.d. metodo mafioso, essendo connessa non tanto alla struttura del sodalizio criminale quanto alle concrete modalità che evochino la forza intimidatrice e omertosa tipica dell’agire “mafioso”.

Segnatamente, la Cassazione ritiene che ai fini della configurabilità della summenzionata circostanza aggravante non basta la mera presunzione di appartenenza ad un “clan storico”, tantomeno una organizzazione criminosa caratterizzata dall'impiego di numerosi uomini e mezzi o dall'uso di armi anche da guerra. Ciò perché tali espedienti non costituiscono "patrimonio" esclusivo delle organizzazioni di tipo mafioso (nel caso di specie, si trattava di una cellula criminale operante nella Regione Puglia), ben potendo essere utilizzate da gruppi criminali che, pur altamente "professionali" e organizzati, non rispondono alle indicazioni tipologiche previste dall'art. 416-bis c.p..

Ciò che occorre in omaggio all’art. 27 Cost. è invece l’effettivo ricorso al c.d. metodo mafioso che deve essersi concretizzato in un comportamento idoneo ad esercitare sulle vittime quella condizione di coartazione psicologica che deriva dalla prospettazione di un male ingiusto proveniente da un tipo di sodalizio criminoso dedito a molteplici ed efferati delitti. Se la ratio della disposizione aggravante è dunque punire quelle condotte che astrattamente gravitano attorno alla associazione criminosa, allora appare logico ritenere configurabile l’aumento sanzionatorio anche in presenza dell'utilizzo di un messaggio intimidatorio c.d. silente ovvero cioè privo di un'esplicita richiesta. Tuttavia, in omaggio al principio di offensività, è necessario che da tale messaggio emerga la carica lesiva della minaccia il che accade quando l'associazione abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l'avvertimento mafioso, sia pure implicito, ovvero il ricorso a specifici comportamenti di violenza o minaccia.

Entrando nel merito del decisum della sentenza, gli Ermellini ritengono che l'aggravante in commento sia configurabile in tutti i casi in cui le condotte dei soggetti agenti presentino un nesso eziologico rispetto all’azione criminosa poichè logicamente funzionali alla più pronta e agevole perpetrazione del crimine Ciò che rileva, dunque, non è tanto che il soggetto agente assuma la qualità di intraneus nel sodalizio criminoso quanto ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente e alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga a un sodalizio del genere anzidetto. Sotto il punto di vista probatorio, secondo la Cassazione non occorre neanche che sia dimostrata processualmente l’esistenza di un vero e proprio sodalizio, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia richiamino alla mente e alla sensibilità del soggetto passivo la forza intimidatrice tipicamente mafiosa del vincolo associativo.


Vai alla Fonte

La legittima difesa nel reato di rissa

Pubblicato il: 26/02/2023

La Corte di Cassazione, all’interno della recentissima ordinanza n. 3462 del 2 dicembre 2022 (depositata in data 26 gennaio 2023), si è occupata di un tema delicato nella prassi, ossia quello relativo all’applicabilità, o meno, della scriminante della legittima difesa (art. 52 del c.p.) nel reato di rissa (art. 588 del c.p.).
Sulla scia di una granitica posizione della giurisprudenza di legittimità, la Corte di Cassazione ha ivi riconfermato la non applicabilità della causa di giustificazione in esame da parte di uno dei corrissanti coinvolto in una rissa: ciò in quanto mancherebbe la necessità della difesa tipica della scriminante della legittima difesa.
Al fine di comprendere pienamente la pronuncia in esame, occorre dapprima chiarire i requisiti tipici della legittima difesa, nonché, in generale, gli elementi strutturali del reato di rissa.
In particolare, la scriminante della legittima difesa prevede la non punibilità di colui che realizza un fatto di reato stante “la necessità di difendere un diritto proprio od altrui”: per la sua applicazione, è necessario il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, ovvero la proporzionalità della difesa rispetto all’offesa. In presenza di suddetti presupposti, il fatto tipico di reato è considerato dall’ordinamento privo dell’antigiuridicità, e pertanto non punibile: in particolare, il fatto è considerato lecito non solo penalmente, bensì in ogni settore dell’ordinamento giuridico (anche in quello civile e penale).
In merito al reato di rissa, il legislatore punisce, ex art. 588 c.p., chiunque vi partecipi (comma 1). Nel successivo comma, sono puniti, a titolo di circostanze aggravanti, gli eventuali eventi lesivi generatosi dalla rissa: in particolare, il codice enuncia quanto segue: “se nella rissa taluno rimane ucciso, o riporta lesione personale, la pena, per il solo fatto della partecipazione alla rissa, è della reclusione da tre mesi a cinque anni. La stessa pena si applica se la uccisione o la lesione personale avviene immediatamente dopo la rissa, ed in conseguenza di essa”.
Parte della dottrina ha qualificato la responsabilità penale enunciata dal legislatore all’interno del reato di rissa come oggettiva, in quanto imputata sine culpa. Ratio di tale scelta del legislatore si rinviene nel principio di autoresponsabilità, ossia nell’assunto per cui ogni soggetto presente alla rissa si è autodeterminato alla partecipazione, e pertanto ognuno di essi risponde (penalmente) degli eventi lesivi ivi generatosi, sebbene non voluti.
Da tale premessa, dunque, si deduce la legittima scelta della giurisprudenza prevalente di escludere, nella generalità dei casi, l’applicazione della causa di giustificazione della legittima difesa a favore del partecipante al reato di rissa: mancherebbero difatti, non solo la necessità della difesa di un diritto proprio o altrui, tipica dell’art. 52 c.p.; bensì anche il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, essendo la situazione di pericolo creata dagli stessi corrissanti, ovvero l’offesa arrecata agli altri non qualificabile come mera reazione, bensì azione lesiva. I partecipanti alla rissa sono difatti animati dall'intento reciproco di offendersi (volontà di scambiarsi insulti, percosse e lesioni), accettando così la situazione di pericolo nella quale volontariamente si espongono.
L’ordinanza in esame della Corte di Cassazione avalla il filone giurisprudenziale prevalente, non giustificando gli eventi lesivi nel reato di rissa sotto l’ala protettrice dell’art. 52 c.p. Tuttavia, all’interno della pronunzia in oggetto, la Corte non manca di ricordare la necessità di valutare, in sede giurisdizionale, la specificità dei casi concreti, essendo non sempre legittima l’esclusione della causa di giustificazione di cui all’art. 52 c.p. in materia di rissa.
In particolare, così come affermato da altre pronunce della Corte di Cassazione, è possibile applicare la scriminante della legittima difesa nel reato di rissa qualora l’azione subita dal danneggiato sia stata completamente imprevedibile e sproporzionata, ossia del tutto nuova ed autonoma, tale da giustificare una reazione uguale e contraria (cfr Cass. pen., sez. V, 16 novembre 2006, n. 7635).
Ed ancora, è possibile applicare la scriminante in esame anche qualora si verifichi uno scontro tra due gruppi contrapposti, di cui uno solo attaccante: il secondo gruppo, ossia quello che cerca di difendersi da aggressioni ingiuste altrui (in assenza di preventiva azione), può invocare la scriminante della legittima difesa in caso di eventi lesivi cagionati dal delitto de quo.

Vai alla Fonte

Trenitalia può ingiungere la multa a chi non paga?

Pubblicato il: 24/02/2023

La Corte di Cassazione con la sentenza numero 4141/2023 ha affermato la legittimità di Trenitalia, quale gestore di un pubblico servizio, a riscuotere coattivamente la soprattassa stabilita dalle condizioni generali di contratto cui aderisce chi viaggia sul trasporto pubblico. Inoltre, può ingiungere anche la soprattassa e la sanzione che viene irrogata al viaggiatore che non ha acquistato il biglietto.

Protagonista della vicenda un viaggiatore a cui Trenitalia ingiunge un pagamento di 274,20 euro, originato da una multa irrogata all’uomo perché non in possesso del titolo di viaggio sul treno. Peraltro, l’uomo non fornisce una giustificazione valida sul motivo per cui non era munito del biglietto.
L’ingiunto, ricorre al Giudice di Pace che conferma la legittimità della sanzione e dell’ingiunzione effettuata, anche in sede di Appello la decisione viene confermata dai Giudici che si soffermano sulla qualificazione giuridica di Trenitalia. Nello specifico, si fa riferimento ad una sua autorizzazione a irrogare sanzioni sui mezzi di trasporti pubblici e sulla successiva possibilità di ingiungere la sanzione.

Giunti in Cassazione, gli Ermellini evidenziano che con il Decreto Ministeriale del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 2009, Trenitalia viene autorizzata a riscuotere coattivamente gli importi a credito che siano conseguenti a contestazioni di irregolarità dei soggetti che si trovano a bordo dei treni e anche della successiva irrogazione della sanzione.

Per i Giudici, la tesi del ricorrente, secondo cui Trenitalia non avrebbe il potere di sanzionare la condotta del passeggero che viaggia, non ha fondamento giuridico. Il gestore del servizio pubblico in quanto pubblico ufficiale ha il potere di accertare le violazioni commesse sui treni e sanzionarle, riscuotendo coattivamente, mediante ruolo i crediti derivanti da codeste irregolarità.
In conclusione, i Giudici, ritengono corretto anche l’importo della sanzione che è costituito dal prezzo del biglietto non acquistato a cui il gestore ha aggiunto il sovrapprezzo e la sanzione prevista.


Vai alla Fonte

Il principio di autodeterminazione religiosa nell’ambito sanitario: i testimoni di Geova

Pubblicato il: 24/02/2023

Con la pronuncia n. 29469/2020, la III Sez. Civile della Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata circa il complesso rapporto intercorrente tra il diritto all'autodeterminazione del paziente che rifiuta le cure per motivi religiosi e l'obbligo degli operatori sanitari, ex art. 32 Cost., di salvaguardare la salute dei pazienti. La vicenda sottoposta all'attenzione degli Ermellini risale al 2004 dove una donna, espressamente professatasi Testimone di Geova, durante un parto cesareo, dichiarava espressamente all'equipe medica il proprio rifiuto a ricevere eventuali emotrasfusioni di sangue a causa della propria religione. Tale rifiuto, inoltre, era da intendersi valido ogni circostanza e pertanto anche a fronte di un potenziale pericolo di vita. Nonostante il rifiuto della paziente fosse stato acquisito nell'ambito di una procedura medicalizzata, alcune complicazioni causate dal parto cesareo esponevano la donna ad una grave emorragia che, di li a poco, ne avrebbe causato il decesso senza una opportuna emotrasfusione sanguigna che l'equipe medica riteneva opportuno effettuare per salvare la vita della paziente. Nonostante l'esito fausto dell'intervento, la donna citava in giudizio i medici e la struttura ospedaliera, chiedendo il risarcimento dei danni subiti come conseguenza delle trasfusioni imposte in grave violazione del suo diritto all’autodeterminazione.

Ciò posto, nonostante i primi due gradi di giudizio avessero respinto le richieste della donna sul generico presupposto che l’accettazione dell’intervento manifestava implicitamente il desiderio di essere curata e quindi accettare tutte le fasi dell’intervento, la Cassazione con una sorprendente sentenza ha accolto il ricorso della donna sulla base dell’interpretazione dei principi costituzionali che vengono in gioco in materia. Segnatamente, dato che all’epoca dei fatti non era ancora entrata in vigore la legge sul consenso informato e sulle D.A.T., la Cassazione ha rilevato che la disciplina della fattispecie resta affidata ai principi costituzionali relativi al diritto di autodeterminazione sanitaria ex art. 2 Cost., art. 13 Cost. e art. 32 Cost. e di libertà religiosa ex art. 19 Cost.. Il primo rappresenta un diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute; il secondo, invece, un diritto inviolabile tutelato al massimo grado poiché il principio di laicità è da intendersi non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità. Da ciò ne deriva a detta degli Ermellini una vera e propria osmosi tra tali diritti che comporta il definitivo abbandono dell’abusato concetto di intervento per stato di necessità, usato in passato per giustificare una visione paternalistica del rapporto medico-paziente, a favore di una visione cooperativa fondata su uno specifico rapporto giuridico contrassegnato dall’obbligazione negativa del sanitario di non ledere la sfera giuridica vantata dal paziente, cui spetta la titolarità attiva del rapporto. Al centro di tale rapporto, dunque, viene posto l'individuo, con le sue scelte di vita e soprattutto i valori che caratterizzano ciascuno di noi, fra cui i propri convincimenti religiosi.

La regola di giudizio enunciata permette a questo punto di rilevare l’erroneità delle motivazioni dei precedenti gradi di giudizio secondo cui l’accettazione dell’intervento chirurgico equivaleva ad un consenso implicito al trattamento trasfusionale. Secondo la Corte, infatti, la dichiarazione anticipata di dissenso all’emotrasfusione è insuperabile non contando che questa possa essere ritenuta opportuna dai medici a seguito di una eventuale emorragia causata dall’intervento e dunque giustificata dal rischio di pericolo di vita. L’attualità del dissenso non è poi da riferirsi al momento del peggioramento della situazione clinica o del sorgere del pericolo di vita, ma alla volontà manifestata inizialmente. Dissenso che, tra l'altro, non perde valore qualora sopraggiunga un successivo stato di incapacità del soggetto o una situazione di pericolo.

In conclusione, può dirsi il principio enunciato dalla sentenza rappresenta uno strumento di tutela non solo per il paziente, ma anche e soprattutto per gli operatori sanitari che hanno bisogno di certezze di fronte a situazioni simili. L’opzione era: o da un lato rispettare la volontà del paziente ed in caso di esito infausto subire eventuali azioni penali, ovvero non rispettare la volontà del paziente ma esponendosi parimenti possibili azioni da parte sua o dei suoi congiunti, sia in sede civile che in sede penale. L’evoluzione giurisprudenziale, anche con la sentenza in commento, e indubbiamente la l. n. 219/2017, sembrano aver messo finalmente a tacere questi dubbi.


Vai alla Fonte

Marito troppo avaro: per la Cassazione è reato di maltrattamenti

Pubblicato il: 23/02/2023

La Corte di Cassazione con la sentenza numero 6937/2023, ha respinto il ricorso avverso la sentenza emessa nei confronti d un uomo condannato per aver commesso maltrattamenti nei confronti della moglie. Nello specifico, con la pronuncia, viene ricondotto nell’alveo normativo del reato suddetto ogni condotta riconducibile ad un comportamento vessatorio nei confronti della vittima.

La causa tre origine dalla condanna in appello del marito per aver tenuto delle condotte controllanti e pervasive finalizzate a imporre alla consorte uno stile di vita volto ad un risparmio ingiustificato.
Condotte che per i Giudici possono essere ricomprese nel reato di maltrattamenti. L’uomo ricorre in cassazione avverso la predetta sentenza.
Il Supremo Consesso rigetta il ricordo, infatti, in motivazione si legge che durante il giudizio di merito, le dichiarazioni rese dalla persona offesa del reato, confermano che se dapprima il regime restrittivo era condiviso, in seguito si è trasformato in una vera e propria imposizione insopportabile da parte del marito. L’uomo si era imposto con un clima di sopraffazione mediante condotte vessatorie. Il regime domestico di risparmio che la donna doveva realizzare veniva stabilito dal marito che attraverso soprusi e angherie sfociava in continui litigi.

Nel corso del giudizio è emerso un cambiamento evidente nella personalità della donna solare e piena di vita, confermato anche dalle testimonianze, che sfocia nella diagnosi di disturbo post traumatico da stress e intenti suicidi.

Gli Ermellini ricordano che con il matrimonio i coniugi si accordano sul regime della vita familiare e tale accordo deve essere condiviso da entrambi e non imposto da una parte del rapporto, soprattutto se riguarda anche le più piccolo esigenze della vita quotidiana.

Per di più i coniugi non avevano scadenze o esigenze economiche impellenti che avrebbero potuto giustificare una simile oculatezza sulle spese. Difatti entrambi avevano un impiego e uno stipendio, per questo la donna era costretta a nascondere le spese a casa dei genitori o delle amiche, gettando via gli scontrini.

Pertanto, per la Corte, il comportamento del marito era retto esclusivamente dalla volontà di sopraffare la donna condizionandone ogni decisione o azione mediante ingiurie e offese.


Vai alla Fonte

Legittime le registrazioni nei confronti di datore di lavoro e colleghi per tutelare il proprio posto di lavoro

Pubblicato il: 22/02/2023

Con un’interessante ordinanza del 2022, il Tribunale di Cassino ha statuito che viene riconosciuto al lavoratore il diritto di costituirsi mezzi di prova contro il datore di lavoro, per una causa futura, se le prove vengono raccolte al fine di tutelare il proprio lavoro.

La vicenda in oggetto prende le mosse dal ricorso al Tribunale ordinario, in funzione di giudice del lavoro, presentato da un lavoratore che deduceva di aver subito condotte vessatorie e illegittime sul luogo di lavoro. Il lavoratore, a sostegno, produceva in giudizio, registrazioni audio raccolte con l’ausilio del proprio smartphone, utilizzato all’insaputa dei colleghi e del datore di lavoro.

Costituitasi in giudizio parte datoriale, contesta gli assunti avversi e chiede la non ammissione delle predette registrazioni fonografiche poiché raccolte in violazione dei precetti imposti dall’art. 29 del Regolamento generale sulla protezione dei dati, ritenendo peraltro sussistente il reato di violazione della privacy di cui all’art. 167 del Codice della privacy.

Le prove raccolte, per il Giudice, possono essere prodotte nel giudizio. Nello specifico, all’interno del processo lavoristico, la prova raccolta dal lavoratore mediante fonoregistrazione a mezzo di cellulare può essere validamente prodotta poiché è diritto riconosciuto alla luce del principio secondo cui la finalità difensiva esclude la necessità di richiedere il consenso dei presenti.
Pertanto, ne discende la legittimità assoluta della condotta del lavoratore che ha effettuato le registrazioni occulte, poiché pertinenti a sostenere le proprie tesi difensive sempre che non siano eccedenti le connesse finalità, così come conferma prevalente giurisprudenza. (Cass. Civ. 12534/2019; Cass. Civ. 11322/2018; Cass.Civ. 27424/2014).

Il Giudice, nell’ottica del bilanciamento tra i diritti costituzionalmente protetti dalle norme in esame, ha ritenuto prevalente al diritto dell’interessato a opporsi al trattamento dei dati personali, il diritto al trattamento degli stessi se effettuato per ragioni di giustizia vantate da altro soggetto.


Vai alla Fonte

Il rapporto tra il delitto tentato e la violenza sessuale

Pubblicato il: 22/02/2023

Con una interessantissima pronuncia (n. 4607 del 24 gennaio 2023), la Quarta Sezione penale della Corte di cassazione è tornata ad occuparsi del controverso rapporto tra il delitto tentato, ex art. 56 del c.p. e il delitto di violenza sessuale, ex art. 609 bis del c.p..

Prima di analizzare nel merito il decisum della Corte, appare opportuno ricapitolare brevissimamente l’evoluzione che ha avuto ad oggetto i reati in materia sessuale. Segnatamente, nell’impianto originario del codice penale, suddetti reati erano disciplinati nel titolo IX del II Libro, denominati delitti contro la moralità e il buon costume. Tale titolo era suddiviso in due capi: il primo di questi conteneva i delitti contro la libertà sessuale; il II i delitti consistenti in offesi al pudore e all’onore sessuale. L’odierna violenza sessuale era concepita all’interno del primo capo che disciplinava la c.d violenza carnale; gli atti di libidine violenti; la seduzione con promessa di matrimonio ed il ratto. Dal breve seppur non esaustivo excursus proposto, emerge nitidamente che tali delitti erano posti a tutela della moralità pubblica la cui protezione era assicurata stigmatizzando in sede penale le manifestazioni distorte di un istinto sessuale che si poneva contrario alla morale sociale, sub species morale sessuale. Con la legge n. 66/96 il legislatore ha tuttavia attuato un completo restyling della normativa in tema di reati sessuali, a partire dalla collocazione sistematica, inserendoli nei delitti contro la libertà personale (Titolo XII, capo III, sez. II), ed avallando dunque l’idea di una dimensione individualistica e focalizzata sul rispetto dell’autodeterminazione sessuale: concetto completamente slegato dalla morale publbica e dal pubblico scandalo.

Ciò posto ed entrando in media res, la Corte di Legittimità nella propria decisione ha ribadito il costante orientamento della Cassazione affermando la fattispecie tentata ex art. 609 bis c.p. è slegata da ipotetici contatti applicati su zone erogene del corpo della vittima. Viceversa, può configurarsi anche quando “il contatto sia stato superficiale o fugace e non abbia attinto una zona erogena o considerata tale dal reo per la reazione della vittima o per altri fattori indipendenti dalla volontà dell’agente”. In sintesi, la fattispecie di delitto tentato, posta quale schema logico giuridico generale dei reati c.d. di pericolo, si concretizzerà anche tutte le vote in cui la condotta non abbia determinato una immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima, poiché l’agente non ne ha raggiunto le zone genitali o erogene ovvero non ha provocato un contatto tra le proprie parti intime e la vittima.

L’ampiezza della fattispecie, tuttavia, è temperata dalla analisi della condotta sotto il profilo soggettivo. Secondo la sentenza in commento, infatti, la condotta punita dall’art. 609-bis c.p. è solo quella finalizzata a soddisfare la concupiscenza dell’aggressore con la conseguenza che il giudice, al fine di valutare la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, non deve fare riferimento unicamente alle parti anatomiche aggredite ma deve tenere conto dell’intero contesto in cui il contatto si è realizzato e della dinamica intersoggettiva.


Vai alla Fonte

Le offese via chat: tra ingiuria e diffamazione

Pubblicato il: 22/02/2023

La Corte di Cassazione, sezione V penale, con sentenza n. 2246 del 14 dicembre 2022 (depositata in data 19 gennaio 2023) si è pronunciata circa la differenza tra la condotta di ingiuria, oramai depenalizzata ai sensi dell'art. 1, comma 1, lett. c), D.L.vo 15 gennaio 2016 n.7, ed il delitto di diffamazione. In particolare, sulla scia della precedente elaborazione giurisprudenziale, la Corte di Cassazione ha, in tale sede, confermato che elemento caratterizzante il delitto di diffamazione è l'estraneità del terzo destinatario delle offese rispetto alla conversazione in itinere, il quale, non potendo interloquire con gli autori della offesa, non può difendersi: solo in caso di contestualità dell'offesa rispetto alla conversazione tra le parti, dunque, la condotta illecita perfeziona il fatto illecito dell' ingiuria, oramai depenalizzato, e pertanto non più penalmente punibile.

La distinzione tra le due tipologie di condotte è fondamentale, considerando che, ad oggi, solo la condotta di diffamazione merita punizione penale: il legislatore ha, nel 2016, rinunciato a punire il delitto di ingiuria, non qualificando più come penalmente rilevante l'offesa ivi arrecata. In ambo i fatti illeciti, il bene giuridico tutelato è quello dell'integrità della reputazione, la quale subisce un danno considerevole in caso di offese arrecate pubblicamente (art. 2 Cost.; art. 3 Cost.).
Tuttavia, la tutela del bene giuridico in esame si scontra anche con la libertà di manifestazione del pensiero, tutelata nella costituzione all'interno dell' art. 21 Cost.: ognuno può esprimere liberamente il proprio pensiero, purché non sia lesa la dignità di ogni consociato.

Al fine di comprendere pienamente la pronunzia in esame, occorre effettuare una preliminare disamina circa i fatti illeciti della diffamazione e dell'ingiuria, al fine di individuarne gli elementi differenziali.
In particolare, il delitto di diffamazione (art. 595 del c.p.) si perfeziona, ex lege, qualora un soggetto, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione. Al fine di perfezionare la fattispecie de quo, occorrono dunque tre elementi costitutivi: l'offesa all'altrui reputazione; l'assenza del soggetto offeso; la comunicazione a più persone. L'elemento soggettivo richiesto al fine di integrare la fattispecie della diffamazione è il dolo, anche solo nella forma eventuale: occorre, difatti, la volontà del soggetto agente di macchiare, attraverso la propria condotta offensiva, la reputazione altrui in sua assenza.
Stante l'avanzamento delle nuove tecnologie, il delitto di diffamazione si presenta sempre di più nella forma telematica: sono notevolmente aumentati i casi di diffamazione via web, attuati specie attraverso l'utilizzo dei social network.
La condotta de quo può essere scriminata qualora sia posta in essere nell'espletamento dell'esercizio del diritto di cronaca giornalistica (ai sensi dell' art. 51 del c.p.), qualora l'informazione diffamatoria rispetti i requisiti della verità, pertinenza e continenza; secondo una parte della dottrina, a scriminare la condotta diffamatoria è anche l'esercizio del diritto di cronaca, ovvero di satira.

Per quanto riguarda l'ingiuria (art. 494 del c.p.) invece, questa consta nella condotta di offesa al decoro della persona presente: la contestualità dell'offesa rispetto alla conversazione con il soggetto destinatario della stessa, pertanto, genera la condotta de quo in luogo di quella della diffamazione. L'ingiuria, difatti, si caratterizza per la percezione dell'offesa da parte del destinatario. Secondo la giurisprudenza maggioritaria, si manifesta ingiuria qualora il soggetto offeso resta estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone, e pertanto è impossibilitato a difendersi dalle accuse mosse nei suoi confronti (Cass. pen., sez. V, 25 febbraio 2020, n. 10905).
Il legislatore, attraverso la legge n. 7 del 2016, ha abrogato la fattispecie di reato di cui all'art. 494 c.p., punendo le condotte di offesa all'altrui reputazione contestuali con la sola sanzione pecuniaria di stampo civilistico.

Alla luce delle premesse di carattere generale supra esposte, è possibile analizzare il contenuto della sentenza in esame.
La Corte di Cassazione, in tal sede, ha confermato l'orientamento giurisprudenziale pregresso, intravedendo il discrimen tra la condotta di ingiuria e quella di diffamazione nell'elemento della estraneità del terzo destinatario delle offese. In particolare, la Cassazione in tal sede si è spinta oltre, affermando anche che il delitto di diffamazione intercorre anche nei casi in cui il terzo destinatario sia presente nella conversazione effettuata, ma non riesca a percepire il contenuto del messaggio contestualmente rispetto agli altri destinatari della conversazione. In particolare, avallando l'orientamento giurisprudenziale precedente, ha affermato che "l'invio di una "e-mail dal contenuto offensivo ad una pluralità di destinatari integri il reato di diffamazione anche nell'eventualità che tra questi vi sia l'offeso, stante la non contestualità del recepimento del messaggio nelle caselle di posta elettronica di destinazione" (da Cass. pen., sez. V, 4 marzo 2021, n. 13252).

Dunque, nel caso di specie si è ritenuto integrato il delitto di diffamazione, e non la fattispecie depenalizzata di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, nel caso di inoltro di messaggi offensivi e diffamanti nei confronti della persona offesa all'interno di una "chat" condivisa, e pertanto visibile anche ad altri soggetti, qualora il destinatario dell'offesa non abbia recepito la stessa nell'immediatezza (Cass. pen., sez. V, 10 giugno 2022, n. 28675).


Vai alla Fonte

1 2 3 4 5