Senza previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica non salva dal reato l’ottenimento postumo del permesso di costruire

Pubblicato il: 20/02/2023

La terza sezione della Corte di Cassazione, con sentenza n. 5750 del 2 febbraio 2023 (depositata in data 10 febbraio 2023), si è occupata del reato di abuso edilizio, di cui art. 44, lett. c), Testo unico edilizia, confermandone il perfezionamento anche in caso di successivo rilascio, da parte della Pubblica Amministrazione, del solo provvedimento del permesso di costruire.
Ciò in quanto, in caso di opera edilizia abusivamente realizzata in zona vincolata, il solo rilascio, da parte dell’autorità amministrativa, del solo permesso di costruire, e non, dell’autorizzazione paesaggistica, rende pienamente perfezionati i reati di abuso edilizio, ex art. 44 lett. c), d.P.R. 380/01, nonché quello di abuso paesaggistico, di cui all’ art. 181, Codice dei beni culturali e del paesaggio.

In altri termini, sulla scia della pregressa giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., sez. III, 12 novembre 2020, n. 190), non è sufficiente il mero permesso di costruire in caso di zona vincolata, essendo, sempre necessario anche il provvedimento di autorizzazione paesaggistica, il quale non è rilasciabile ex post, salvo casi eccezionali indicati dalla legge.

Al fine di comprendere al meglio la decisione in esame, può farsi riferimento alle nozioni di teoria generale.

In particolare, il permesso di costruire è un titolo autorizzativo, rilasciato su richiesta del privato dal Comune di riferimento, ed è necessario al fine di eseguire interventi di trasformazione urbanistica e edilizia. Il suo rilascio implica un accertamento di carattere vincolato da parte dell’amministrazione procedente, costituito dalla previa verifica della conformità dell’opera rispetto alla normativa urbanistico – edilizia. La giurisprudenza di legittimità, in merito, ha precisato difatti che: “l’istruttoria di una domanda di concessione edilizia deve ritenersi congruamente e correttamente condotta allorché sia volta alla verifica della conformità delle opere realizzande alle prescrizioni urbanistico-edilizie ed a quelle recate da norme speciali (ad es. in materia sanitaria, antisismica, paesaggistica, ecc.); una tale verifica, così come il provvedimento autorizzatorio nel quale la stessa sfocia, ha carattere vincolato, nel senso che non può eccedere un tale accertamento, sì che il provvedimento finale non necessità di altra motivazione, che non sia quella della rispondenza dell'opera alle dette prescrizioni e della stretta osservanza delle limitazioni dalle stesse poste in tema di volume, altezza, densità, distanze, ecc. degli edifici” (Cons. Stato Sez. IV, 1 aprile 2011, n. 2050). Anche se, invero, non mancano alcune pronunce che affermano l’esistenza di un apprezzamento tecnico discrezionale da parte della P.A. procedente, ossia: “la verifica di compatibilità tra previsioni generali urbanistiche e loro applicazione al momento della presentazione di una proposta progettuale di uno specifico intervento si colora di indiscussi momenti di apprezzamento tecnico – discrezionale; qui, volendo ricorrere alle categorie tradizionali, possono rintracciarsi ambiti in cui la verifica di compatibilità tra progetto e previsioni di piano si limita alla constatazione di dati reali e momenti in cui all’amministrazione è rimesso un più ampio margine di apprezzamento che sfugge all’applicazione di parametri predeterminati, per ancorarsi a più elastici criteri di natura tecnico discrezionale”.

Quanto, invece, all’autorizzazione paesaggistica, trattasi di un provvedimento autorizzatorio, aggiuntivo rispetto al titolo edilizio del permesso di costruire, il quale attesta la conformità dell’opera rispetto alla normativa in materia di Codice dei beni culturali (D.Lgs 42/2004). In particolare, suddetta autorizzazione è necessaria in caso di costruzione in aree sottoposte a tutela paesaggistica, ove è necessario operare un maggiore controllo circa la possibilità di effettuare un intervento edilizio, qualora modificativo dei luoghi o dell’aspetto degli edifici.

Il rilascio dell’autorizzazione in esame è regolato dagli artt. 146 e 149 del Codice dei Beni Culturali: la sua assenza genera l'inefficacia del titolo edilizio rilasciato, essendo quest’ultimo non idoneo a produrre alcun effetto giuridico in materia di costruzione. Difatti, non è ammessa in tal caso la sanatoria urbanistica, ai sensi dell'art. 36 d.P.R. 380/01 (cfr., Cass. pen., sez. III, 11 gennaio 2023 n. 544).

Ex lege, non è possibile rilasciare in via tardiva il provvedimento di autorizzazione paesaggistica (ossia, successivamente alla costruzione), salvo casi eccezionali espressamente individuati dalla legge (in particolare, all’interno dell’art. 167, commi 4 e 5, D.L.vo 42/04, il quale tipizza i c.d. “abusi minori” in materia paesaggistica). Pertanto, la sua assenza originaria determina la non legittimità dell’opera costruita, non sanabile ex post.

Alla luce delle suddette coordinate di teoria generale, la Corte di Cassazione, all’interno della pronuncia in esame, ha confermato che, in caso di opera abusiva già realizzata in zona vincolata, l’eventuale rilascio postumo del solo permesso di costruire (all’interno di una procedura di sanatoria dell’abuso edilizio, ex art. 36, d.P.R. 380/01), non è idoneo a sanare l'intervento già posto in essere dal privato, in assenza di previa richiesta originaria del provvedimento di autorizzazione paesaggistica.


Vai alla Fonte

I rapporti tra il diritto di accesso e le associazioni portatrici di interessi diffusi

Pubblicato il: 18/02/2023

Con sentenza n.8333/2021, il Consiglio di Stato ha dato continuità al consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa in tema di accesso agli atti ex art. 22 della legge sul proc. amministrativo.

All'analisi della soluzione giuridica proposta dal consesso amministrativo, appare opportuno riepilogare brevemente la vicenda storico-fattuale.

Segnatamente, nel dicembre del 2019, allegando un interesse diretto, concreto ed attuale ed al fine di perseguire le proprie finalità statutarie nell’interesse della collettività, il Codacons presentava una richiesta di accesso agli atti nei confronti della CONSOB e di Banca di Italia avente ad oggetto documenti relativi gli accertamenti, ispezioni e alle istruttorie espletate dai due organismi pubblici in relazione alla crisi bancaria della Banca Popolare di Bari.
Con motivazioni simili, entrambe le authorities negavano l’istanza di accesso poiché il Codacons mancava di dimostrare un nesso effettivo fra la conoscenza degli atti di cui si chiedeva l’ostensione e il perseguimento delle finalità statutarie. A tale uopo, l’ampiezza e la genericità dell’istanza si traducevano in un tentativo di effettuare un controllo generalizzato sull’operato della P.A.. Da ultimo, i documenti richiesti erano caratterizzati dal segreto per finalità di vigilanza e dunque soddisfare la pretesa ostensiva avrebbe significato un danno per nulla irrilevante al ceto creditorio.
Dopo avere infruttuosamente esperito la procedura innanzi la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, il Codacons impugnava i provvedimenti di diniego di accesso dinanzi al T.A.R. del Lazio il quale, ritenendo che il Codacons non potesse vantare un interesse differenziato e qualificato in relazione al corretto funzionamento del mercato del credito e del risparmio, respingeva il ricorso.
La sentenza in questione veniva impugnata in appello innanzi alla quarta Sezione del Consiglio di Stato la quale richiamando tuttavia il proprio consolidato orientamento in tema di esercizio del diritto di accesso rigettava il gravame.

Ciò posto, la pronuncia del Consiglio di Stato in esame seppure non si caratterizza per un impianto motivazionale originale contribuisce a definire con maggiore precisione la posizione giuridica soggettiva delle associazioni portatrici di interessi legittimi diffusi.
Nel dettaglio, ad avviso di questa pronuncia, non vi è alcuna differenza qualitativa tra le associazioni de quo e quella dei singoli individui. I requisiti sostanziali per il legittimo esercizio del diritto di accesso sono, infatti, i medesimi per tutti i soggetti dell’ordinamento e si incentrano su un interesse diretto, concreto ed attuale alla specifica conoscenza documentale invocata. Pertanto, l’interesse sotteso alla costituzione ed all’operatività di un’associazione di utenti, quale quello statutariamente tutelato dal Codacons, si proietta in una dimensione di pretesa ostensiva solo ove la documentazione oggetto della richiesta sia effettivamente necessaria o, quanto meno, strettamente funzionale al conseguimento delle finalità statutarie, ciò che è onere dell’associazione stessa dimostrare. E’ infatti pacifico che alla stregua della normativa in tema di accesso documentale non è predicabile una sorta di legittimazione ostensiva generale in capo a tali associazioni, difettando un’apposita previsione di legge in tal senso.

Nel caso di specie, pertanto, la richiesta di accesso è stata correttamente rigettata, posto che difetta uno specifico, puntuale e ben individuato nesso fra la conoscenza degli accertamenti, delle ispezioni, delle istruttorie e delle relative risultanze eseguite dalla Banca d’Italia e dalla Consob in relazione alla crisi bancaria della Banca popolare di Bari, oggi commissariata, e gli scopi statutari del Codacons, cui è estranea la titolarità di una sorta di azione ostensiva popolare o, a fortiori, di un sindacato ispettivo generale sull’operato delle Autorità di vigilanza. A tale uopo, non può ritenersi neanche idonea a dimostrare la legittimazione e l’interesse all’esercizio del diritto di accesso la sola presentazione di esposti ovvero a costituzione di parte civile nei giudizi penali conseguenti alla crisi del richiamato istituto di credito. Attesa, infatti, la natura personale della responsabilità penale, l’azione civile avverso specifici soggetti che hanno rivestito posizioni apicali in un istituto di credito non legittima una richiesta di accesso riferita all’intera attività di vigilanza svolta in precedenza con riferimento all’istituto bancario stesso.


Vai alla Fonte

I rapporti tra i beni culturali e il diritto dominicale: il caso delle Ville Vesuviane in Campania

Pubblicato il: 18/02/2023

Con una interessantissima pronuncia (n. 3605 del 9 maggio 2022), la IV Sezione del Consiglio di Stato ha contribuito a rafforzare il consolidato orientamento seguito dalla giurisprudenza amministrativa sulle c.d. “Ville Vesuviane”. Entrando in media res, la questione sottesa alla sentenza in commento ha origine dal diniego opposto dalla Pubblica Amministrazione circa l’istallazione di una stazione radio all’interno del noto “Parco della Villa Pignatelli Monteleone” a cagione del valore storico artistico dell’area individuata.

Tale provvedimento, ritenuto illegittimo dalla società di capitali che aveva chiesto l’autorizzazione all’impianto dello strumento, veniva impugnato con ricorso al T.A.R. Campania il quale accoglieva il ricorso ritenendo illegittimo il provvedimento. Proponeva appello il Ministero della Cultura attraverso la Soprintendenza archeologica ribadendo il valore “culturale” del bene ed invocando la relativa disciplina prevista ex lege.

Nel pronunciarsi sul gravame, il Collegio giudicante ha illustrato puntualmente il quadro normativo vigente in materia e, a tal proposito, ha puntualizzato che la L. n. 578/1971, per identità di finalità e funzioni, rappresenta una normativa speciale rispetto a quella dettata ex l. 1089/1939 (succ. integrata dai D. Lgs. nn. 490/1999 e Codice dei beni culturali e del paesaggio).

Per effetto di tale specialità, i giudici di Palazzo Spada statuivano che la natura “culturale” del bene, discende direttamente dalle sue qualità intrinseche accertate dall’apposita commissione chiamata, all’uopo, a formulare un apposto elenco delle ville da tutelare da sottoporre all’approvazione del Ministero. A tale uopo, le Ville Vesuviane presenti all’interno dell’elenco approvato con D.M, 19/10/1976 e pubblicato nella G.U. del 7/1/1977, costituiscono beni culturali ex lege indipendentemente da chi intenda vantare un diritto di proprietà su di esse sicchè ai fini dell’applicazione della relativa disciplina è irrilevante accertare processualmente a chi spetti suddetto diritto.

Nel caso di specie, relativamente alla villa “Pignatelli Monteleone”, anch’essa notoriamente parte dell’elenco di cui al suddetto D.M. 19/10/1976, la stessa deve ritenersi soggetta al vincolo culturale ex lege, e come tale sottoposta alle relative norme di protezione qualunque sia il suo regime proprietario.

Dopo aver ribadito tale consolidato orientamento giurisprudenziale, il Collegio si è soffermato anche su un tema di parte generale, ovvero sulla valenza del vincolo culturale attribuibile ad un bene che versa in stato di abbandono e degrado. In proposito, è stato asserito che tale circostanza non esclude la sussistenza del vincolo culturale e per l’effetto non comporta il venir meno della relativa tutela. Tuttavia, tale ultimo assunto non vale nell’ipotesi in cui il medesimo bene, a causa delle modifiche apportate, abbia oggettivamente perso quelle caratteristiche intrinseche che avrebbero consentito di attribuirgli valenza culturale giustificandone la protezione e, soprattutto, come nel caso del Parco circostante Villa Pignatelli di Monteleone, ove non vi sia certezza riguardo il tempo dell’avvenuta trasformazione (che potrebbe essersi verificata anteriormente all’imposizione del vincolo).


Vai alla Fonte

La responsabilità del conducente di una imbarcazione rispetto al terzo trasportato

Pubblicato il: 18/02/2023

All’interno dell’ordinanza n. 12063 del 13 aprile 2022, la sesta sezione della Corte di Cassazione è intervenuta in materia di trasporto nautico, al fine di valutare la responsabilità del conducente circa i danni arrecati al soggetto terzo trasportato in caso di sinistro via mare.
Trattasi, invero, di una pronuncia concernente un argomento molto delicato nella prassi, il quale di recente ha rinvenuto ampio spazio nelle vicende di cronaca giornalistica (si pensi, ad esempio, al naufragio della Concordia). Pertanto, le vicende fattuali degli ultimi anni hanno attenzionato la giurisprudenza recente, la quale si è sempre più occupata delle suddette forme di risarcimento del danno cagionato durante il trasporto nautico.
In materia di risarcimento del danno da circolazione nautica e navale, vi è apposita legislazione speciale, la quale rimanda alle regole generali del Codice civile in materia di trasporto e responsabilità civile per il danno cagionato al terzo trasportato.

In particolare, la materia era dapprima regolata dall’art. 47, L. 11 febbraio 1971, n. 50, il quale è poi successivamente transitato nella più recente disposizione normativa di cui al D.lgs 18 luglio 2005, n. 171, in base al quale la responsabilità civile verso terzi derivante dalla circolazione nautica è regolata dall' art. 2054 del c.c.., in base al quale “Il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo, se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno”.

Secondo la combinazione della normativa di stampo speciale e quella di natura generale, in materia di circolazione nautica l’onere della prova grava sul soggetto vettore, e non sul terzo trasportato: quest’ultimo, difatti, deve provare di aver fatto tutto ciò che era in suo potere al fine di evitare il perfezionamento del pregiudizio in capo al soggetto trasportato, attraverso le ordinarie regole di diligenza del buon padre di famiglia, ovvero di diligenza tecnica, in caso di trasportatore professionista (commi 1 e 2 ex art. 1176 del c.c.).
Così che, secondo l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità, ad essere responsabile dei danni avverso il terzo trasportato via mare è il conducente di natanti, se quest’ultimo non riesce a dimostrare di aver fatto tutto quanto era in suo potere al fine di evitare il danno (Corte di Cass., sentenza 26 giugno 2015, n. 13324): trattasi, invero, di una forma di responsabilità civile presunta, derogatoria rispetto alle ordinarie regole della responsabilità di stampo aquiliano, in base alla quale è il sul danneggiato che cade l’onere della prova, e non sul danneggiante (art. 2043 del c.c.).
Non trova in materia applicazione la normativa del codice della navigazione, la quale prevede l’applicazione delle regole ordinarie in materia di responsabilità civile aquiliana in materia di circolazione nautica amichevole. In particolare, la norma di riferimento è l’art. 414 del Codice della navigazione, in base alla quale: “Chi assume il trasporto di persone o di bagagli a titolo amichevole è responsabile solo quando il danneggiato provi che il danno dipende da dolo o colpa grave del vettore o dei suoi dipendenti e preposti”.

Pertanto, anche in materia di navigazione il legislatore ha preferito conservare la presunzione di responsabilità del conducente vettore, in luogo di quella ordinaria di stampo aquiliano, in base al quale è invece da conferirsi l’onere della prova in capo al soggetto danneggiato: ciò in quanto, essendo il trasporto marittimo estremamente pericoloso, è necessario che il soggetto vettore, il quale si impegni a trasportare il terzo in via amichevole e/o professionale, adoperi tutte le cautele necessarie al trasporto. In mancanza, risulta responsabile, alla luce del comportamento omissivo circa la neutralizzazione del rischio che, sebbene consentito dall’ordinamento (in quanto trattasi di attività socialmente utile), resta comunque da gestire, al fine di impedire la causazione del danno (art. 1375 del c.c.).

Oltre alla normativa in materia di responsabilità aquiliana presunta (da applicarsi qualora il trasportato sia un soggetto terzo), restano comunque applicabili le ordinarie regole della responsabilità civile in materia di contratto di trasporto, di cui all’ art. 1681 del c.c., nel caso in cui ad essere trasportato è soggetto legato al vettore da vincolo contrattuale (ovvero, da contatto sociale qualificato, in base alla giurisprudenza di legittimità, cfr., sentenza 23 febbraio 2009, n. 4343). La normativa in esame afferma che: “Salva la responsabilità per il ritardo e per l'inadempimento nell'esecuzione del trasporto, il vettore risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio e della perdita o dell'avaria delle cose che il viaggiatore porta con sé, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”. La norma in esame riprende le ordinarie regole della responsabilità civile, in base al quale l’onere della prova in materia contrattuale grava sul debitore inadempiente, ovvero sul danneggiante (ex art. 1218 del c.c.). Tuttavia, al fine di imputare il danno, resta comunque necessario il previo accertamento del nesso causale.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha riconosciuto la responsabilità del conducente di un'imbarcazione in presenza della c.d. onda anomala, essendo il fenomeno naturalistico oggettivamente prevedibile, e pertanto evitabile dal soggetto vettore: quest’ultimo, dunque, è responsabile, stante il fatto che non ha utilizzato ogni mezzo a disposizione per evitare il danno cagionato al soggetto trasportato.


Vai alla Fonte

La nozione di “atti di concorrenza” ex art. 513 bis c.p.: una soluzione conforme al diritto sovranazionale?

Pubblicato il: 18/02/2023

Con una interessantissima pronuncia (sentenza n. 13178 del 28 aprile 2020), le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono pronunciate sul significato da attribuire al sintagma “atti di concorrenza” contenuto all’interno della fattispecie ex art. 513 bis del c.p., risolvendo un annoso contrasto che da anni affligge gli interpreti.

Prima di entrare in media res, è noto che il diritto penale, a cagione delle conseguenze che derivano dalla violazione dei suoi precetti, deve ispirarsi al principio di tassatività. Tale principio è stato implicitamente costituzionalizzato ex art. 25 Cost. comma II e, per l’effetto, comporta non il divieto di analogia e l’obbligo per il legislatore di descrivere le fattispecie penalmente rilevanti con chiarezza e precisione, in modo che sia sempre possibile per il cittadino prevedere le conseguenze delle proprie azioni. Alla luce di tale principio, il sintagma ex 513 bis “atti di concorrenza era ritenuto ambiguo dalla giurisprudenza, incerta se con essa si facesse riferimento alla nozione civilistica di atto di concorrenza ovvero se occorresse (cd. tesi restrittiva) o, invece, sia sufficiente il compimento di atti di violenza o minaccia in relazione ai quali la limitazione della concorrenza sia solo la mira teleologica dell’agente (cd. tesi estensiva). Rimessa la questione a Sezioni Unite, la sentenza in commento ha affermato il seguente principio di diritto: ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 513-bis c.p. è necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e siano idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente.

L’articolato percorso logico-argomentativo delineato dalle Sezioni Unite parte dalla confutazione di entrambi i due opposti orientamenti interpretativi. Da un lato, non è accettabile la c.d. tesi restrittiva perché nel nobile tentativo di conferire alla norma maggiore determinatezza, le attribuisce una capacità di tutela dei beni giuridici in gioco fortemente ridotta, ridimensionata a tal punto da renderla in concreto inapplicabile se non in casi assai limitati. Allo stesso modo, è inaccettabile l’interpretazione accolta secondo la tesi estensiva, che comporterebbe il risultato di una equiparazione tra l'atto violento o minaccioso finalizzato a inibire la concorrenza – non ravvisabile nel dato normativo – e l'atto di concorrenza commesso con violenza o minaccia – espressamente annoverato tra gli elementi costitutivi del reato. Emergono, dunque, con evidenza, i rischi di compressione del principio di tassatività e determinatezza della legge penale. Non solo, la tesi estensiva rafforzerebbe del tutto impropriamente l'incidenza dell'elemento psicologico del reato poiché, al di fuori di condotte intimidatorie poste in essere nell'esercizio dell'attività concorrenziale, il fine dei comportamenti illeciti dovrà comunque dirigersi verso il contrasto dell'altrui libertà di concorrenza.

Di contro, prospettive di maggiore interesse ai fini della corretta soluzione del quesito emergono, secondo gli Ermellini, nella soluzione “mediana” prospettata da tempo da un terzo orientamento giurisprudenziale nella parte in cui si propone di ridefinire la tipicità della fattispecie assegnando al compimento di atti di concorrenza una rinnovata centralità nel quadro evolutivo della pertinente normativa di riferimento, sia interna che eurounitaria, senza, tuttavia, tralasciare l’importanza del richiamo alle ragioni e le finalità di tutela poste a fondamento dell’articolo 513 bis c.p.
Prospettive il cui approfondimento è collegato al contesto normativo profondamente mutato rispetto a quello nel quale inizialmente venne inserita la predetta fattispecie di reato: un contesto multiarticolato e dunque più ampio.

Posta tale premessa, le Sezioni Unite giungono alla loro definitiva conclusione ponendo in rilievo alcuni aspetti fondamentali. Da un lato, la struttura normativa della fattispecie di reato, che postula sia la qualità di imprenditore in capo al soggetto attivo che, direttamente o indirettamente, pone in essere la condotta, sia l’esistenza di un rapporto di competizione economica nei confronti del soggetto passivo (c.d. contesto concorrenziale); dall’altro, la natura pluri-offensiva del reato, atteso che tutela un doppio bene giuridico rappresentato sia dall’interesse, ampio, al corretto funzionamento del sistema economico – bene finale -, sia dall’interesse, soggettivo, di ciascuno alla libertà di autodeterminarsi nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva. Da ultimo, connota la fattispecie l’uso della violenza o della minaccia, che non figurano come elementi finalisticamente orientati, bensì come elementi costitutivi della condotta che concorrono a delinearne la tipicità, come confermato dalla stessa rubrica normativa in cui si legge “illecita” concorrenza e non semplicemente “sleale”.


Vai alla Fonte

Usura: per il reato basta la sola difficoltà economico-finanziaria e non serve arrivare fino allo stato di bisogno

Pubblicato il: 16/02/2023

La seconda sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 36376 del 23 giugno 2021 (depositata in data 7 ottobre 2021), si è occupata della fattispecie del delitto di usura (art. 644 del c.p.), definendone, sulla scia della pregressa giurisprudenza di legittimità, i caratteri costitutivi.

In particolare, difatti, ha posto l’accento sugli elementi soggettivi della difficoltà economico – finanziaria, nonché dello stato di bisogno del soggetto agente, intravedendo solo nel primo elemento costitutivo della fattispecie di usura, essendo il secondo elemento idoneo a perfezionare una mera circostanza aggravante.

Al fine di comprendere pienamente il dictum della Suprema Corte, è necessario partire dalla definizione dell’usura presente nel Codice penale.
In particolare, l’articolo 644 c.p. statuisce che: “Chiunque, fuori dei casi previsti dall'articolo 643, si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per se o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari, è punito con la reclusione da due a dieci anni e con la multa da euro 5.000 a euro 30.000. Alla stessa pena soggiace chi, fuori del caso di concorso nel delitto previsto dal primo comma procura a taluno una somma di denaro od altra utilita' facendo dare o promettere, a se' o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario”.

Al fine di integrare il delitto di usura, dunque, la prestazione devoluta alla controparte, sotto forma di interessi, vantaggi, ovvero altra utilità, deve essere superiore alla soglia usuraria definita ex lege: in particolare, per quanto concerne gli interessi, la loro devoluzione, in caso di somme date a prestito (si pensi al mutuo), è sempre legittima; questi possono essere stabiliti direttamente dalla legge secondo il parametro della soglia legale (art. 1224 del c.c.), ovvero convenzionalmente dalle parti, purché, in suddetto ultimo caso, non vi sia un superamento del tasso soglia usurario.

Oltre all’usura in astratto, il Codice penale disciplina anche l’usura in concreto: quest’ultima si verifica qualora gli interessi, sebbene inferiori al limite legale stabilito ex lege, in relazione alle circostanze del caso concreto, ossia al tasso medio globalmente applicato, risultino comunque sproporzionati rispetto alla controprestazione di denaro o di altra utilità, essendo che la controparte si ritrovi in condizioni di difficoltà economica o finanziaria (articolo 644, comma 3, c.p.).
La disposizione normativa in esame è stata prevista dal legislatore al fine di proteggere, in ogni circostanza, la figura del soggetto debitore, il quale potrebbe ritrovarsi comunque a subire controprestazioni svantaggiose, pur non essendo queste superiori rispetto all’ordinario tasso usurario stabilito ex lege. In particolare, pertanto, la norma eleva ad elemento strutturale della fattispecie di reato una condizione di natura soggettiva, ossia la condizione di difficoltà economica del soggetto debitore: questa rileva in quanto, nell’usura in concreto, manca un tasso legale predeterminato ex lege, capace di definire il superamento, o meno, la soglia dell'interesse usurario. Di tal guisa, l’illegittimità della somma da devolvere a titolo di interessi è commisurata in base allo stato soggettivo della difficoltà economica del soggetto passivo, vittima dell’interesse usurario in concreto.

La fattispecie di reato dell’usura è stata riformulata attraverso la legge n. 108/1996, la quale ha trasformato il delitto di usura da soggettivo in oggettivo: dapprima, difatti, al fine del suo perfezionamento era necessaria la presenza dello stato di bisogno della vittima. Ad oggi, questo rileva al sol fine della circostanza aggravante di cui al comma 5, n. 3, della norma in esame, in base al quale: “Le pene per i fatti di cui al comma 1 e comma 2 sono aumentate da un terzo sino alla metà (…) se il reato è commesso in danno di chi si trova in stato di bisogno”.
Dalla lettura del comma in esame, dunque, si evince che la circostanza aggravante de quo si applica solo in caso di usura in astratto, e non a quella in concreto: in quest’ultimo caso, ove il fenomeno dell’usura rileva alla già alla luce della situazione di difficoltà economico finanziaria della vittima, non rileva l’aggravante dello stato di bisogno, essendo l’elemento della necessità già in re ipsa preso in considerazione.

Tuttavia, data la forte analogia tra i due elementi in esame (ossia, della difficoltà economico finanziaria della vittima, nonché dello stato di bisogno), è intervenuta la Corte di Cassazione, la quale nella sentenza in commento, sulla scia della pregressa giurisprudenza (Cass. pen., sez. II, 25 marzo 2014, n. 18778), definisce il discrimen tra l’uno e l’altro elemento. In particolare, vige una situazione di difficoltà economica o finanziaria" della vittima, la quale è uno degli elementi costitutivi del reato in caso di usura in concreto, qualora sussista una minima libertà contrattuale della vittima, la quale resta capace di scegliere se redigere, o meno, il contratto a quelle precise condizioni a sé inique. Sussiste, invece, una situazione di “stato di bisogno”, integrante la circostanza aggravante di cui all'art. 644, comma 5, n. 3 c.p., qualora vi sia uno stato di necessità della vittima grave ed irreversibile, capace di annientare completamente la sua capacità di autonomia negoziale, redigendo, così, contratti di credito aventi condizioni a se estremamente sfavorevoli (cfr, Cass. pen., sez. II, 16 dicembre 2015, n. 10795; Cass. pen., sez. II, 11 novembre 2010, n. 43713).


Vai alla Fonte

I rapporti tra l’omicidio preterintenzionale e quello volontario

Pubblicato il: 16/02/2023

Con una interessantissima pronuncia (sentenza numero 125 del 28 settembre 2022, depositata il 5 gennaio 2023) la prima Sezione penale della Suprema Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sui controversi rapporti che intercorrono tra la fattispecie di omicidio preterintenzionale, ex art. 584 del c.p., ed il reato di omicidio volontario, ex art. 575 del c.p.. A tale uopo, prima di entrare nel merito del decisum, appare opportuno fornire al lettore un quadro circa gli orientamenti in campo sulla natura giuridica dell’omicidio preterintenzionale.

Secondo un primo orientamento, la fattispecie ex art. 584 c.p. sarebbe costituita sotto il profilo soggettivo dal dolo (art. 43 del c.p.) delle lesioni (art. 582 del c.p.) e responsabilità oggettiva (art. 43 del c.p. ult.co. per l’evento morte. Tale orientamento rimonta alla giurisprudenza che si è formata sotto l’originario codice rocco e per l’effetto risulta oggi incostituzionale alla luce del nuovo volto del principio di colpevolezza exart. 27 Cost..

Un secondo orientamento, maggiormente conforme al principio di personalità della responsabilità penale configura l’omicidio preterintenzionale come ipotesi di dolo misto a colpa (per l’evento morte). In tal senso, l’interprete dovrà procedere ad accertare rispetto all’evento non voluto la violazione di una regola cautelare, la prevedibilità dell’evento e l’evitabilità comportandosi in maniera conforme al precetto. Tale orientamento, seppur autorevolmente sostenuto e probabilmente maggiormente conforme alla Costituzione, è oggi minoritario in Cassazione.

A tale uopo, in quel del Palazzaccio ad oggi risulta maggioritario un terzo orientamento che ritiene sufficiente unicamente dal dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all'art. 43 c.p. assorbe la prevedibilità di evento più grave nell'intenzione di risultato.

Così ricostruito il quadro ermeneutico, è possibile entrare in media res. Nel caso di specie, gli Ermellini rammentano che, ai fini della sussistenza dell'ipotesi criminosa del delitto di omicidio preterintenzionale è sufficiente che l'agente abbia posto in essere atti diretti a percuotere o ledere una persona e che esista un rapporto di causa ed effetto tra i predetti atti e l'evento morte, mentre proprio l'azione violenta è rivelatrice della sussistenza del dolo dì percosse e dì lesioni. Appare dunque agevole rilevare che, rispetto all’evento morte, l’atteggiamento del soggetto agente deve essere di completa non volizione, neanche meramente eventuale. Ciò perché in tal caso si configurerebbe la più grave ipotesi di delitto di omicidio volontario perché la condotta del soggetto agente, valutata alla stregua delle regole di comune esperienza, dimostra la consapevole accettazione da parte dell'agente anche solo dell'eventualità che dal suo comportamento possa derivare la morte del soggetto passivo.
In sintesi, secondo la ricostruzione adoperata dalla Suprema Corte di Cassazione, il discrimen tra le due fattispecie risiede nel fatto che, mentre nell’omicidio preterintenzionale la volontà del soggetto agente esclude ogni previsione – anche eventuale – dell'evento morte, nell’omicidio volontario la previsione dell'evento è necessaria e deve essere accertata dal giudice di merito, non essendo sufficiente la semplice prevedibilità dello stesso.


Vai alla Fonte

Evasione fiscale: quando integra reato?

Pubblicato il: 15/02/2023

Il reato di evasione fiscale non scatta automaticamente all’atto del mancato versamento del tributo richiesto dallo Stato, dal momento che la legge stabilisce determinate soglie superate le quali la condotta integra la fattispecie criminosa.
Sono comminate, invece, solo sanzioni di carattere pecuniario, di tipo amministrativo, a coloro che non hanno pagato i tributi dovuti, ma non sono andati oltre i confini definiti ex lege.

Anzitutto il tributo viene definito come la somma che i contribuenti devono versare allo Stato, alla Pubblica Amministrazione e agli enti locali, quali Comuni, Regioni e Province.

All’interno della categoria dei tributi, si distinguono le tasse e le imposte.
Le prime vengono richieste quando si usufruisce di uno specifico servizio al fine di finanziare il servizio stesso, alcuni esempi possono essere la TARI, le tasse sull’istruzione o sulla sanità.
In tal senso la tassa grava solo su chi ha beneficiato di una determinata attività, svolta da un ente pubblico o dallo Stato cui ci si sia rivolti per chiedere il servizio.

Le imposte, invece, non sono collegate alla fruizione di uno specifico servizio e sono basate sulle rispettive capacità contributive dei contribuenti, ne sono esempio l’Irpef, l’Imu, l’imposta di registro. Il pagamento dell’imposta non è richiesto per finanziare qualcosa e ricevere un beneficio in cambio, ma lo Stato ha la libertà di utilizzare quanto ricavato laddove ritiene ve ne sia più necessità.

La fase di accertamento ha avvio con un avviso in forma di diffida con cui la pubblica amministrazione contesta al contribuente evasore l’irregolarità, chiedendo il versamento delle somme dovute e fissando un termine entro il quale si dovrà omologare.

Al suo interno sono esplicitate chiaramente le somme che egli ha evaso, le sanzioni che ne sono ricollegate e ogni interesse moratorio maturato; il che potrebbe portare ad importo molto più elevato rispetto alla tassa iniziale.

Le sanzioni amministrative di tipo tributario che vengono comminate si prescrivono nel termine di cinque anni dal momento della comunicazione, a prescindere dal termine di tributo che potrà essere anche più lungo.

Accanto alle sanzioni tributarie da considerare anche quelle penali che vengono in rilievo solo al passaggio di determinate soglie che comportano la consumazione del reato.

Unica agevolazione prevista è la possibilità di avere uno sconto sulla sanzione se viene pagata nell’immediato o per lo meno entro l’anno dall’accertamento, poiché sarebbe una manifestazione del cosiddetto ravvedimento operoso.

Si prevede il ricorso allo strumento dell’impugnazione dinanzi all’autorità giudiziaria quando l’avviso di accertamento non si dimostri corretto o sia affetto da errore.

Nell’ipotesi contraria, ovvero quando non vi è intenzione di contestare l’accertamento, esso diventa definitivo e non più impugnabile. In questo momento l’ente titolare del credito può formare il cosiddetto ruolo, in cui è definito il diritto di credito, comprensivo di importo della tassa, sanzione e annualità di riferimento.
Le procedure per il recupero del credito sono poi avviate dall’Agente per la Riscossione Esattoriale, che per lo Stato è l’Agenzia Entrate Riscossione, mentre per i crediti degli enti locali, Comuni, Province, Regioni, sono società private che hanno stipulato una apposita convenzione con l’amministrazione.
La cartella esattoriale, contenente tutti i dettagli dei tributi dovuti, delle relative sanzioni e degli interessi, viene notificata al contribuente cui viene intimato il pagamento; anche se spesso gli viene inviata solo una lettera di presa in carico poiché gli avvisi di accertamento sono immediatamente esecutivi.

Le successive procedure esecutive, quindi il pignoramento dei beni del debitore, vengono avviate al passaggio di 60 giorni dalla notifica della cartella stessa senza il pagamento del debitore.
Altra ipotetica conseguenza negativa è l’avvio di una procedura cautelare, come un’ipoteca sugli immobili o il fermo amministrativo sull’auto.

Ovviamente, il nullatenente, ovvero colui che ha solamente beni impignorabili, come la prima casa o la pensione minima, non subirà alcuna conseguenza di questo tipo.

I reati tributari sono molteplici e differenziati in base alla loro gravità; si ricordano la dichiarazione infedele, la dichiarazione omessa, la dichiarazione fraudolenta, l’omesso versamento Iva, l’omesso versamento di ritenute, l’emissione di fatture false, l’occultamento o distruzione di documenti contabili o l’utilizzo di fatture false.

La legge pone una disciplina appropriata per ogni reato, che è perfezionato solo quando sono superate determinate soglie di evasione.

Nella dichiarazione infedele, ovvero l’incasso dei compensi senza denuncia al fisco, si configura il reato solamente alla presenza di questi presupposti:
– l’imposta evasa è superiore a 100 mila euro;
– i redditi non dichiarati superano il 10% del totale o comunque i 2 milioni di euro.

Quando queste soglie non sono raggiunte si prevede solo l’accertamento fiscale con le sanzioni tributarie e la conseguente riscossione esattoriale.

Nel caso in cui la dichiarazione venga omessa, quindi non sia nemmeno presentata all’Agenzia delle Entrate, la condotta integra reato solo se l’imposta evasa ha un importo superiore ai 50 mila euro, al contrario saranno comminate solo sanzioni tributarie.


Vai alla Fonte

I rapporti tra il procedimento penale e il diritto di cronaca

Pubblicato il: 15/02/2023

Con una importantissima pronuncia (sentenza numero 4353 del 17 gennaio 2022, depositata l’1 febbraio 2023), la Quinta sezione penale della Suprema Corte di cassazione si è occupata della causa di giustificazione ex art. 51 del c.p. sub species del diritto di cronaca, ex art. 21 Cost. e, in particolare, dei suoi rapporti con gli atti giudiziari propri del procedimento penale.

Come è noto, l’attività giornalistica – specie di inchiesta – è stata definita dalla giurisprudenza come prerogativa fondamentale posta soprattutto a tutela della collettività. Il c.d. watchdogs journalism è da sempre ritenuto In linea generale come un diritto pubblico soggettivo, espressione della fondamentale libertà di pensiero o di stampa scolpita all’art. 21 della Costituzione. Tale diritto consiste nel potere – dovere conferito al giornalista di portare a conoscenza dell'opinione pubblica fatti, notizie e vicende interessanti la vita associata. Come ogni diritto, tuttavia, quello di cronaca deve compenetrarsi nella trama del tessuto sociale e per l’effetto arrestarsi ogni qualvolta trova di fronte a sé un diritto di “grado maggiore”. Dagli anni novanta si è infatti diffuso un granitico orientamento giurisprudenziale che delimita verso l’esterno il diritto di cronaca, subordinandolo

  • alla continenza del linguaggio,
  • alla veridicità della notizia raccontata ed infine
  • alla inerenza del tema all’interesse pubblico.
Tale diritto, dunque, nella sua concreta esplicazione, trova la sua esterna delimitazione nei paralleli diritti e interessi fondamentali della persona (come l'onore e la reputazione, anch'essi costituzionalmente protetti dagli artt. 2 e 3 Cost.).
Mantenuta in questi limiti, l’attività giornalistica resta dunque nel perimetro della liceità ed eventuali reati commessi dal giornalista risultano scriminati in ogni ramo dell’ordinamento giuridico, non sottostando neanche ad un mero obbligo risarcitorio.

Nel proprio percorso logico argomentativo, la Cassazione reputa opportuno ribadire i limiti esterni del diritto di cronaca sopra solo accennati. In breve, la cronaca dei fatti risulta lecita solo se il giornalista costituisce un semplice intermediario tra il fatto e l'opinione pubblica.
La rappresentazione dei fatti offerta, inoltre, non solo deve rispondere ad un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti narrati, ma deve anche offrire una descrizione coerente con la verità oggettiva (o anche soltanto putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) della realtà, rappresentata in forma «civile», tanto nell'esposizione dei fatti, quanto nella loro valutazione, nel rispetto di quel minimo di dignità cui ha pur sempre diritto anche la più riprovevole delle persone.

Entrando in media res, gli Ermellini hanno ritenuto di fare concreta applicazione delle coordinate ermeneutiche tracciate e, per l’effetto, relativamente alle notizie acquisite grazie a provvedimenti giudiziari, al giornalista è imposto un onere di diligenza qualificato che gli impone di verificare se l'attribuzione ad un soggetto di un fatto illecito sia coerente con le risultanze istruttorie, sia sotto il profilo dell'astratta qualificazione, che della sua concreta gravità. Per l’effetto, ai fini del corretto esercizio del diritto di cronaca, il giornalista che riporti una notizia tratta da un procedimento penale, in particolare se risalente nel tempo, è tenuto a verificarne gli esiti giudiziali, onde accertare se la stessa si sia poi rivelata priva di fondamento, tanto da comportare l'assoluzione dell'accusato.


Vai alla Fonte

Stato dell’immobile e dati castali non coincidenti: quali sono le conseguenze?

Pubblicato il: 15/02/2023

La legge n. 122/2010 entrata in vigore il 1° luglio 2010 fornisce delucidazioni sul modus operandi nel caso in cui a seguito dell’atto di compravendita di un immobile insorgano delle discrepanze tra lo stato reale dell’immobile e quello che risulta dalla planimetria catastale. Questo potrebbe accadere perché non è sempre semplice interpretare la planimetria di un immobile comprendendo a pieno la collocazione esatta dei locali, le metrature, le pertinenze, oltre che la destinazione d’uso e le altezze.

Il rimedio indicato dal legislatore, pena la nullità dell’atto di compravendita, è la verifica della regolarità catastale dei fabbricati prima che venga fatto il rogito, così che vi sia assoluta corrispondenza tra planimetria e immobile.

Le medesime conseguenze negative sono previste in caso si tratti di un atto di donazione o di divisione di un fabbricato.

La verifica operata dal notaio all’atto del rogito sulla planimetria presentata all’ufficio del Catasto riguarda, in particolare, i dati degli intestatari dell’immobile, la toponomastica, quindi il luogo in cui sorge l’immobile, e la planimetria. Pertanto, si dovrà soffermare sulla:
conformità urbanistica presso gli uffici comunali, controllando che vi sia effettiva corrispondenza tra l’ultimo progetto edilizio presentato al Comune e l’immobile;
conformità catastale presso gli uffici dell’Agenzia delle, cioè la corrispondenza tra lo stato di fatto e i dati catastali.

La non conformità della planimetria rispetto allo stato dell’immobile impone l’intervento di un tecnico, in genere un geometra, che possa fornire un parere sull’entità delle difformità e su quali siano le modifiche da effettuare presso gli uffici dell’Agenzia delle Entrate.
Si differenzia il caso in cui la difformità sia di lieve entità, tale da non comportare una variazione della rendita catastale, e quello in cui la difformità sia così grave da determinare invece una variazione.

Nel primo caso, per evitare in totus che la responsabilità ricada sul notaio e sul venditore, sarà sufficiente ottenere un attestato di conformità al momento della compravendita della casa redatto dallo stesso tecnico abilitato che certifichi la perfetta coincidenza tra lo stato di fatto dell’immobile e i dati catastali.

Se, invece, la difformità è più grave la variazione catastale non potrà essere evitata con obbligo di aggiornare la planimetria telematicamente entro 30 giorni dal termine dei lavori. Alla scadenza del termine e in caso di mancato ottemperamento la messa in regola può avvenire con ravvedimento operoso, pagando una sanzione comprese tra euro 103,20 e 172.

La difformità potrebbe avere ad oggetto una modifica interna abusiva, urbanistica e catastale, che richiede al tecnico abilitato di procedere secondo una serie di passaggi, partendo dalla presentazione di una sanatoria in Comune.
Di seguito dovrà procedere all’ aggiornamento della planimetria catastale con le modifiche apportate
attraverso la compilazione dell’istanza telematica, cosiddetta Docfa.

La procedura è messa a disposizione dall’Agenzia delle Entrate, che propone un modello da compilare con tutte le caratteristiche dell’immobile, al quale deve necessariamente essere allegata la piantina. Il tecnico geometra deve quindi avere disponibilità di ogni atto relativo all’immobile in questione, specie l’atto di provenienza della casa, l’ultimo titolo abilitativo di eventuali lavori effettuati, la fotocopia di un documento di identità in corso di validità del proprietario.
La proposta di accatastamento presentata all’ufficio competente per territorio potrà essere approvata, rigettata o integrata su richiesta.

Per quanto riguarda i costi dell’intero aggiornamento catastale si ripartiscono in 50 euro per gli immobili a destinazione ordinaria, quali abitazione, uffici e in 100 euro per gli immobili a destinazione speciale o particolare, come alberghi, fabbriche, case di cura.
Da sommare a questi la parcella del tecnico che si è occupato della presentazione dell’istanza e di tutta la procedura che varia dai 400 ai 600 euro a seconda del luogo in cui è collocato l’immobile.


Vai alla Fonte

1 2 3 4 5