Le controversie in materia di cartelle esattoriali di natura tributaria restano nella sfera di giurisdizione del Giudice Tributario se riguardanti la notifica della cartella di pagamento

Pubblicato il: 15/02/2023

Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, attraverso la nota ordinanza n. 4227 del 10 febbraio 2023, hanno definito i contorni della giurisdizione del giudice tributario, in luogo di quella del giudice ordinario, in materia di controversie inerenti le cartelle esattoriali.
Secondo il Supremo Consesso, in particolare, tutte le cartelle esattoriali, riguardanti crediti di natura tributaria, sono sottoposte alla giurisdizione del giudice tributario, se la controversia concerne l’attività fiscale antecedente, e fino alla notifica al contribuente, della cartella di pagamento; di converso, le controversie inerenti alle successive fasi (post notifica) inerenti la cartella esattoriale, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, in veste del giudice del lavoro.

Già nella pregressa giurisprudenza di legittimità, la Corte di Cassazione, in materia di prescrizione delle cartelle esattoriali, affermava che: “nelle ipotesi, quali quella qui in esame, in cui il contribuente pone ancora come tema demandato all’esame del giudice la definitività o meno delle cartelle di pagamento, pure contestualmente prospettando la prescrizione del debito anche nel caso di ritenuta validità delle notifiche delle cartelle, la giurisdizione sulla vicenda non può che essere attribuita alla giurisdizione del giudice tributario, in quanto l’insussistenza di una situazione di “definitività” delle cartelle di pagamento osta alla qualificazione delle questioni controverse come meramente esecutive, radicando pertanto la giurisdizione del giudice tributario” cui spetta il sindacato della “correttezza formale e sostanziale dei provvedimenti di natura pure messi in discussione nell’atto processuale proposto dal contribuente di cui qui si discute” (Corte di Cass., SS.UU., ordinanza n. 16986/2022; si rinvia anche a Cass. civ., sez. un., 8465/2022).

In particolare, in materia di riparto di giurisdizione relativo alle cartelle esattoriali, sono due le normative di riferimento.
In particolare, l’articolo 2, D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (così come modificato dall'art. 12, comma 2, L. n. 488 del 2001 e dal D.L. n. 203 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 248 del 2005), in base al quale per i giudizi di merito in materia di cartelle esattoriali, la giurisdizione è attribuita alle commissioni tributarie; tuttavia, “Restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notificazione della cartella di pagamento e, ove previsto, dell'avviso di cui all'art. 50, d.P.R. 20 settembre 1973, per le quali continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo decreto del Presidente della Repubblica”.
Ed ancora, si fa riferimento all’art. 19, D.lgs. n. 546 del 1992, il quale indica in via estensiva la parte di atti impugnabili dinanzi alle commissioni tributarie diversi dalle mere cartelle di pagamento.

Sulla scia della normativa in esame, nonché in linea di continuità rispetto alla più rilevante giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. un., n. 7822/2020), le Sezioni Unite hanno nuovamente riconfermato, all’interno della ordinanza in esame, la sussistenza della cognizione del giudice tributario per tutte le controversie concernenti le cartelle esattoriali di pagamento fino alla loro notifica al contribuente, ossia fino all’atto di pignoramento, ma solo qualora sussista l’invalidità originaria della notifica della cartella; ovvero, la cognizione del giudice ordinario per le controversie di natura tributaria concernenti le successive attività del pignoramento (ossia, in relazione ai requisiti formali dell’atto di pignoramento), ovvero quelle relative a tutte le vicende conflittuali riguardanti la pretesa fiscale successive alla mera notifica della cartella. È dinanzi a suddetti organi giurisdizionali, pertanto, che il contribuente dovrà effettuare l’opposizione alla cartella, ex art. 615 del c.p.c..

L’ordinanza in esame delle Sezioni Unite, pronunziandosi ancora in tema di prescrizione delle cartelle esattoriali, ha così testualmente chiarito quanto segue: “il preteso fatto estintivo "prescrizione" suppone, per essere apprezzato, l'accertamento di detti vizi della notifica e, dunque, si risolve in una censura il cui esame risulta riservato alla giurisdizione tributaria tramite l'impugnazione della cartella o dell'intimazione, in quanto conosciute per il tramite ed in forza dell'atto esecutivo che ne rivela l'esistenza. L’opposizione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. non è data. Essa è data, invece, se la prescrizione si assume verificata per il decorso del tempo dopo una valida notifica o comunque per il decorso del tempo a prescindere dalla mancanza della notifica o dalla sua inesistenza o dalla sua nullità: si pensi al caso in cui un pignoramento sia compiuto in un momento che si colloca oltre il termine di prescrizione ancorché calcolato dalla valida notifica della cartella o dell'intimazione oppure dal momento in cui si sarebbe in tesi collocata la notifica nulla, mancante o inesistente di detti atti”.


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Microcar: per la Cassazione sono motoveicoli

Pubblicato il: 15/02/2023

Accade sempre più spesso, specialmente nelle città più grandi, che alcune persone utilizzino quale mezzo di trasporto la cosiddetta microcar a quattro ruote, un veicolo di dimensioni estremamente ridotte, tali da consentire un parcheggio agevole, addirittura su spazi dedicati a ciclomotori e ai motocicli.

Tuttavia, le microcar a quattro ruote non possono sostare in queste aree poiché la sua definizione non è inglobata in quella dei ciclomotori ex art. art. 52 del codice strada del Codice della Strada, ma in quella dei motoveicoli riportata all’art. art. 53 del codice strada.

Essendo, quindi, a tutti gli effetti un motoveicolo, la sosta in uno spazio riservato ai ciclomotori e motocicli è assolutamente vietata.
Questo è stato ribadito anche dalla Cassazione nell'ordinanza n. 3432/2023, pronunciata in occasione di un verbale con il cui viene contestata la violazione dell'art. art. 7 del codice strada commi 1 e 14 del Codice della Strada ad un conducente che aveva parcheggiato la propria microcar nell’area parcheggio per cicli e ai motocicli.

Il verbale è stato contestato per illegittimità poiché la sosta si considerava consentita, dal momento che nel Codice l'art. 52 ricollega l’identità del veicolo a quella di un ciclomotore; per cui non sembrava esserci alcun tipo di impedimento alla sosta per il veicolo in quella zona.
Tuttavia, l'opposizione viene rigettata oltre che in primo e in secondo grado anche in Cassazione, che ha accolto solo uno dei motivi, riconfermando ciò che aveva concluso la Corte di Appello, ovvero la qualificazione della microcar come motoveicoloe, quindi, il divieto di sosta negli spazi destinati a cicli e motocicli.

Pertanto, la microcar viene definitivamente fatta rientrare nella definizione dell’art. 53 del Codice della Strada alla lettera h che definisce i quadricicli a motore come veicoli a quattro ruote destinati al trasporto di cose con al massimo una persona oltre al conducente nella cabina di guida, ai trasporti specifici e per uso speciale, la cui massa a vuoto non superi le 0,55 tonnellate, con esclusione della massa delle batterie se a trazione elettrica, capaci di sviluppare su strada orizzontale una velocità massima fino a 80 km/h. Le caratteristiche costruttive sono stabilite dal regolamento. Detti veicoli, qualora superino anche uno solo dei limiti stabiliti sono considerati autoveicoli.

Il conducente è stato, quindi, costretto a pagare la sanzione amministrativa stabilita per il divieto di sosta nelle aree dedicate ai cicli e motocicli.


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È possibile ricevere la paga su carte prepagate senza Iban?

Pubblicato il: 14/02/2023

La legge n. 205 del 2017, entrata in vigore il 1° luglio 2018, ha vietato ai datori di lavoro di versare la retribuzione tramite contanti e di avvalersi, invece, di strumenti tracciabili, ci si domanda se vi rientrino le carte ricaricabili, dotate o meno di Iban.

Sul punto ha portato chiarimento l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, che con due provvedimenti ha stabilito che la carta di credito prepagata con o senza iban, intestata al lavoratore, può essere regolarmente usata per il pagamento della retribuzione; onere del datore di lavoro la conservazione delle ricevute di versamento.

Essenziale è che la retribuzione avvenga tramite mezzi tracciabili, che non siano contanti, salvo il caso in cui si tratti di rapporti di lavoro domestico, compensi derivanti da borse di studio, tirocini o rapporti autonomi di natura occasionale.
Qualora la norma in questione venga violata il datore incorre nella la sanzione pecuniaria oscillante tra un minimo di 1.000 euro ed un massimo di 5.000.

Per quanto riguarda i mezzi che rendono tracciabile il pagamento, si ricordano, non solo il classico bonifico sul conto corrente, ma anche l’assegno non trasferibile, il vaglia postale, i contanti presso lo sportello bancario o postale in cui si ha un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento.

Gli strumenti di pagamento elettronici, dunque, sono certamente utilizzabili per il pagamento degli stipendi, comprese le carte prepagate senza iban intestate ai dipendenti perché sarà sufficiente conservare le ricevute di versamento ai fini della loro esibizione e per consentirne la tracciabilità.

La scelta delle modalità di pagamento non spetta al datore di lavoro, ma al dipendente che potrà valutare ciò che gli risulta più comodo, senza mai subire alcuna imposizione da parte del datore di lavoro.
Questo salvo il caso in cui la modalità prescelta dal dipendente comporti un eccessivo onere economico e/o di tempo per l’azienda, così che si potrà addivenire ad un diverso accordo tra i due.

In ogni caso permane l’obbligo per il datore di lavoro di consegnare ai propri dipendenti un prospetto paga, firmato, siglato o riportante il timbro del datore di lavoro, con una serie di indicazioni, tra le quali i dati del lavoratore, il periodo cui la retribuzione si riferisce, gli elementi della retribuzione (compreso l’Anf) e le trattenute.
Se la retribuzione avviene metà in denaro e metà in natura, può limitarsi a riportare le somme in denaro, infatti la retribuzione in natura è indicata solo se e nella misura in cui determina un incremento della retribuzione imponibile ai fini previdenziali e fiscali.

Ci si può affidare anche al mezzo della posta elettronica per l’invio del cedolino paga, infatti la firma della busta paga non è più necessaria, questo anche per evitare che il datore compia dei soprusi verso il proprio dipendente obbligandolo a sottoscrivere una ricevuta di pagamento diversa dall’importo effettivamente accreditato.


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Condominio: gli infissi sono parti in comune?

Pubblicato il: 14/02/2023

La vita in condominio impone il pagamento di tutte le spese collegate alle cosiddette parti comuni, ovvero tutto ciò che i condomini possono utilizzare in comune all’interno del condominio; a tal proposito ci si domanda se gli infissi in condominio ne fanno parte.

La legge non si espone con chiarezza sul punto, rendendo difficile comprendere se le spese inerenti alla manutenzione e/o sostituzione sono a carico di tutti i condòmini o solamente del proprietario dell’abitazione.

Anzitutto, è importante dare una definizione a ciò che si intende per l’infisso, ovvero una struttura rigida che sia ancorata alla muratura, composta da un telaio su cui sono inserite le parti apribili ed installati i vetri. Si distinguono la parte fissa, ovvero la cornice incastrata direttamente nelle pareti e la parte mobile, cioè il serramento o doppio infisso che chiude le aperture lasciate nei fabbricati per uso d’ingresso o per dare passaggio ad aria e luce.

Il legislatore ha posto nel Codice civile un elenco di parti considerate comuni all’interno del condominio, a meno che non vi siano delle previsioni diverse all’interno del titolo, ovvero il rogito con cui l’originario unico proprietario dell’edificio ha messo in vendita le singole unità immobiliari ai condòmini.
In particolare, nel condominio si considerano in comune:
– tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune, come il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate;
– le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria con l’alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune;
– le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell’aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo.

A partire dalla definizione data dall’art. 1117 c.c. si considerano in comune tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune, quindi, gli infissi delle finestre dei singoli appartamenti non possono essere considerati di proprietà comune perché non sono destinati ad essere usati dal condominio intero.

Alla stregua degli infissi sono considerate anche le porte di ingresso di ogni appartamento, nonché i balconi aggettanti. Ne consegue che gli infissi in condominio non sono parti comuni ed ogni spesa legata alla loro manutenzione deve essere sostenuta dal singolo proprietario dell’appartamento e non della generalità dei condòmini.

Gli infissi degli appartamenti sono, quindi, privati e non condominiali, ma devono in ogni caso rispettare il cosiddetto decoro architettonico ovvero l’estetica dell’edificio, specie nella scelta di stile e colore, tanto che l’assemblea può deliberare anche la loro rimozione.
Allo stesso modo il regolamento può imporre al proprietario di modificare gli infissi oppure di installarli di un certo colore, limitando di fatto la sua libertà di decisione, a condizione che sia stato approvato all’unanimità.


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Terreni confinanti: le distanze legali si possono derogare?

Pubblicato il: 14/02/2023

Il Codice civile dedica l’articolo art. 873 del c.c. alle distanze legali che devono sussistere tra costruzioni non unite o adiacenti, prescrivendo tre metri, salvo siano stabiliti limiti diversi nei regolamenti comunali.

La giurisprudenza si è lungamente soffermata sulla possibilità di derogare la norma di legge con una convenzione tra le parti che decidano di stabilire confini diversi dai canonici, addivenendo ad una soluzione praticabile solo con la pronuncia della Cassazione n. 3304/2023.

La norma generale impone che vi sia una distanza pari a tre metri tra costruzioni su fondi confinanti di proprietà di due soggetti diversi, che non siano unite o aderenti, con eventuale deroga di regolamenti locali o comunali che possono individuare una distanza maggiore.

Inoltre, per le pareti finestrate e le pareti di edifici antistanti si prevede una distanza minima di dieci metri, in tutte le zone omogenee del territorio comunale ad eccezione dei centri storici, nei quali per gli interventi di risanamento e di ristrutturazione, le distanze tra edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti fra i volumi edificati preesistenti.
Qualora vi siano gruppi di edifici che formano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planivolumetriche le distanze possono essere anche inferiori.

Se le distanze previste dalla legge non vengono rispettate, le conseguenze sono diversificate a seconda che la norma violata sia quella del codice o altra norma di legge, come il D.M. n. 1444 del 2 aprile 1968, oppure altre discipline. Nel primo caso il vicino può chiedere la riduzione in pristino con rimozione dell’opera o della pianta che viola le distanze, oltre che il risarcimento del danno; mentre per le altre regolamentazioni la richiesta deve essere limitata al solo risarcimento del danno.

La Suprema Corte ha stabilito che le distanze previste dal Codice civile sono derogabili con una convenzione fra le parti, in cui si afferma il diritto di tenere l’edificio a distanza minore rispetto alla legale con una servitù. Invece, le regole fissate da regolamenti locali o comunali e dalle normative speciali che prevedano una distanza superiore ai tre metri sono inderogabili e quindi non possono essere cambiate da alcun accordo fra le parti.

Si conclude che, alla presenza di una disciplina diversa da quella legislativa, i proprietari del fondo possono scegliere solamente come ripartire le distanze tra i rispettivi fondi; questo al fine di rispettare un modello urbanistico già prefissato nell’interesse dell’intera comunità.

Nel caso in cui due vicini riescano ad accordarsi sulle distanze da osservare per l’eventuale costruzione di un’opera sul fondo, si dovranno preoccupare di fissare le proprie volontà con atto scritto, ovvero con un contratto di costituzione della servitù, in cui sia chiaramente espressa la decisione di derogare la norma di legge con l’accordo.

Questo è ciò che emerge dal fatto sottoposto all’esame della Corte di Cassazione, in cui l’autorizzazione a costruire a distanza inferiore ai tre metri era stata concessa dal vicino verbalmente, senza alcun atto scritto. In questo frangente, la pronuncia ha ribadito l’impossibilità di derogare le distanze legali tra costruzioni, quando sono fissate da piani regolatori e regolamenti edilizi comunali proprio perché poste a tutela dell’interesse generale al rispetto di un prefigurato modello urbanistico.
Gli accordi sono invalidi anche a seguito del rilascio di concessione edilizia, che non può violare, in ogni caso, i principi generali dettati.

Quindi, la disciplina derogatoria è limitata alla sola distanza prevista dal Codice civile e deve essere fissata con un contratto che costituisca una servitù prediale a norma dell’[[art. 1058cc]] c.c., dando contezza degli effettivi accordi intercorsi tra i due vicini.
Il limite legale per il proprietario del fondo dominante dovrà, quindi, venire meno a favore del fondo contiguo beneficiario, che ha acquisito con l’accordo la facoltà di invadere la sfera esclusiva del fondo servente.


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Risarcimento per danno da bagaglio smarrito: per la Cassazione bastano gli scontrini

Pubblicato il: 14/02/2023

Per provare il danno subito a causa della mancata consegna del proprio bagaglio, il passeggero può presentare gli scontrini inerenti l’acquisto dei beni di prima necessità indispensabili per rimpiazzare quelli contenuti nella valigia. Questo è quanto deciso dai giudici della Corte di Cassazione con l’ordinanza numero 3308/2023. Il danno, è stato provocato ad una passeggera a cui sono stati recapitati i propri bagagli a distanza di 5 giorni dall’atterraggio.
Una passeggera di un volo aereo, cita in giudizio la compagnia per ottenere la condanna al risarcimento del danno subito a seguito dello smarrimento del suo bagaglio. Il Tribunale, aveva riconosciuto alla donna un ristoro pari a 400 euro, importo che è stato ridotto in sede di appello a seguito dell’impugnazione della sentenza da parte della compagnia e il conseguente parziale accoglimento dell’appello.
Nello specifico, i Giudici riconoscono alla donna, un ristoro pari a 115,73 euro, importo che corrisponde alla somma che la donna ha provato di aver speso attraverso il valore degli scontrini fiscali depositati. Gli stessi riportavano la somma degli acquisti resi necessari per sostituire i beni di prima necessità che erano rimasti all’interno del bagaglio smarrito.

In sede di merito, non vi è stata alcuna contestazione da parte della compagnia aerea relativi alla veridicità e originalità degli acquisti, che la donna ha provato in corso di causa con gli scontrini fiscali. Al contrario, nel ricorso in Cassazione viene contestato il riconoscimento del danno subito.

Tale motivo, al pari degli altri, non viene accolto in Cassazione. Gli Ermellini difatti rilevano che la sentenza di merito ha riconosciuto il ristoro del danno così come è stato provato dagli scontrini, che dimostravano l’acquisto dei soli beni di prima necessità volti a rimpiazzare ciò che era contenuto nel bagaglio. Lo stesso era stato confermato persino dalla testimonianza di un’amica della passeggera che l’aveva aiutata nelle spese. Per i Giudici non serve altro che per dimostrare sia le spese effettuate dalla donna che il nesso di causalità con la mancata disponibilità del bagaglio.


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La validità del consenso del minore in materia di produzione del materiale pedo pornografico

Pubblicato il: 14/02/2023

La Corte di Cassazione, con la celebre informazione provvisoria n. 18 del 28 ottobre 2021, comunicava la risoluzione, da parte delle Sezioni Unite, di una questione di massima rilevanza, concernente la condotta di produzione di materiale pornografico realizzata da soggetto adulto e minore di anni quattordici, previo consenso di quest’ultimo.
In altri termini, ci si chiedeva quali fossero i presupposti fattuali al fine di considerare la condotta de quo sussumibile nella fattispecie di reato di cui all’ art. 600 ter del c.p., comma 1.

In particolare, la norma recita che: “E' punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 24.000 a euro 240.000 chiunque: 1) utilizzando minori di anni diciotto, realizza esibizioni o spettacoli pornografici ovvero produce materiale pornografico; 2) recluta o induce minori di anni diciotto a partecipare a esibizioni o spettacoli pornografici ovvero dai suddetti spettacoli trae altrimenti profitto”.

In particolare, con la diffusione delle reti internet, nonché del sempre maggiore utilizzo dei mezzi dei social network, era divenuto sempre più necessario un intervento del Supremo organo nomofilattico, finalizzato ad individuare i confini applicativi della fattispecie di reato in esame. La questione di fondo ineriva, in particolare, il valore del consenso del minore di anni quattordici in materia sessuale circa la produzione del materiale pedo – pornografico, ovvero se questo fosse valido, o meno.
La questione è stata rimessa alle Sezioni Unite con ordinanza n. 25334 del 22 aprile 2021.

Sul punto, si era già espressa la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, attraverso la precedente sentenza n. 51815 del 31 maggio 2018, affermando che, al fine di qualificare la condotta di produzione del materiale pedopornografico come penalmente rilevante, occorreva accertare la situazione patologica di “utilizzazione” del minore, consistente nello sfruttamento della sua fisicità, attraverso condotte plagianti la sua volontà. Solo in tale ultimo caso, difatti, l’attività di ripresa del rapporto sessuale era da considerarsi penalmente rilevante, essendo, di converso, non illecita.

Difatti, secondo la Corte del 2018, non vi è utilizzazione del minore qualora quest’ultimo, sebbene non ancora maggiorenne, abbia raggiunto maturità sessuale, ossia idoneità ad esprimere valido consenso non solo al rapporto sessuale, ma anche alle sue riprese. Resta ferma, secondo la giurisprudenza maggioritaria, la necessità da parte del giudice, di accertare, caso per caso, l’assenza di coartazioni fisiche e/o morali, nonché qualsiasi forma di condizionamento psicologico derivante dalla posizione di “superiorità” anagrafica del soggetto maggiorenne.
Il minore deve avere voluto il rapporto sessuale, quanto le sue riprese, in via autonoma ed indipendente: deve trattarsi di una scelta liberamente presa dal minore consenziente, il quale, pertanto, deve bene essere consapevole dell’attività sessuale che sta svolgendo. Ed ancora, la condotta del soggetto maggiorenne, secondo la Cassazione, resta lecita solo qualora le riprese tra il soggetto adulto ed il minore restino private: la diffusione del materiale resta attività assolutamente illecita.

Al fine dell’accertamento della illiceità della condotta di produzione del materiale pedo-pornografico, la Corte, per la prima volta, enunciava la non necessità di accertare il pericolo in concreto della diffusione del suddetto materiale: ciò in quanto, a differenza delle epoche passate, è estremamente facile diffondere materiale via internet, in ogni momento, e secondo le modalità più eterogenee (blog, siti, social network).
Pertanto, inutiliter data è suddetto accertamento circa la pericolosità della diffusione, essendo questa in re ipsa presente già al momento della produzione del materiale stesso.

Tuttavia, all’interno della pronunzia in esame, la Corte di Cassazione ha, in parte, mutato orientamento, non reputando più necessario valutare l'illiceità della condotta del soggetto maggiorenne in base alla utilizzazione del soggetto minorenne nell'attività di produzione del materiale pedo pornografico. In altri termini, al giudice spetta solo accertare la presenza di un valido consenso del soggetto minore, previo accertamento della sua maturità in ambito sessuale.
Ciò in quanto il legislatore interno non ha esercitato una facoltà riconosciuta espressamente dall’8, par. 3, della direttiva 2011/93/EU (e già prevista nella Convenzione di Lanzarote), in base alla quale l’attività pedo-pornografica esercitata in assenza dell’utilizzo del minore sia, invero, lecita. In particolare, secondo la normativa sovranazionale, la condotta di produzione di immagini e/o video pedo pornografici non è, ex se, illecita se il materiale "sia prodotto e posseduto con il consenso di tali minori e unicamente a uso privato delle persone coinvolte, purché l’atto non implichi alcun abuso”.

Così che, secondo il filone giurisprudenziale in esame, la liceità o meno della condotta di produzione del materiale pedo-pornografico sarà misurata tenendo conto del raggiungimento della capacità sessuale da parte del soggetto minore, da accertarsi in concreto da parte del giudice. In particolare, nel rispetto della libertà di autodeterminazione sessuale del minore, sarà necessario accertare la sua capacità di esprimere valido consenso tanto ai rapporti sessuali, quanto alla produzione del materiale con soggetto maggiorenne.

Tuttavia, il consenso alla produzione del materiale non esprime, al contempo, il consenso alla sua diffusione: difatti, le condotte di diffusione, senza consenso, da parte del soggetto maggiorenne del materiale pedo pornografico prodotto con il soggetto minorenne integra le fattispecie di reato di cui all’art. 600-ter, comma 3 e 4, del codice penale.


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Il diritto allo scorrimento in graduatoria nei concorsi pubblici: chi è il giudice munito di giurisdizione?

Pubblicato il: 13/02/2023

Con una interessantissima pronuncia, le Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 22746 del 12/08/2021) hanno preso posizione circa una tematica di importantissima rilevanza tanto sociale quanto giuridica: il riparto di giurisdizione circa la domanda del candidato, utilmente collocato tra gli idonei non vincitori di una procedura concorsuale nell’ambito del pubblico impiegoprivatizzato (Testo unico sul pubblico impiego), allo scorrimento della graduatoria.

Prima di entrare in media res, in modo da fornire al lettore le coordinate ermeneutiche essenziali per orientarsi all’interno di questo articolo, appare opportuno fornire alcuni chiarimenti di parte generale.
Il riparto di giurisdizione all’interno del “doppio binario” di giurisdizione introdotto con Legge Crispi, riposa oggi sul criterio del binomio “carenza di potere/cattivo uso del potere” cristallizzato ex art. 7 del codice proc. amministrativo. In breve, ove l’amministrazione sia titolare del potere attribuitole dalla legge di perseguire l’interesse pubblico, ma tale potere viene esercitato in violazione di legge, la giurisdizione apparterrà tendenzialmente al giudice amministrativo in quanto vi è una P.A. che agisce in veste di autorità. Viceversa, ove l’amministrazione non sia titolare della prerogativa di spendere alcun potere pubblicistico, la controversia apparterrà tendenzialmente al giudice ordinario in quanto vi è una P.A. che spende la sua capacità di diritto privato.

Alla luce di tale criterio, Secondo la Cassazione, la cognizione della domanda avanzata dal candidato utilmente collocato nella graduatoria finale riguardante la pretesa al riconoscimento del diritto allo “scorrimento” della graduatoria del concorso espletato, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, facendosi valere, al di fuori dell'ambito della procedura concorsuale, il diritto soggettivo all’assunzione.
In altri termini, nel caso di concorso cui abbia fatto seguito lo scorrimento di graduatoria, i candidati utilmente collocati possono ricorrere alla giurisdizione del giudice ordinario se titolari di un diritto perfetto all'assunzione, derivante da una decisione dell'Amministrazione di coprire i posti vacanti mediante scorrimento della precedente graduatoria e se la relativa contestazione abbia ad oggetto le modalità di attuazione dello scorrimento della graduatoria del concorso espletato. Viceversa, ove la pretesa al riconoscimento del suddetto diritto sia consequenziale alla negazione degli effetti del provvedimento di indizione di un nuovo concorso, la contestazione investe l'esercizio di un potere discrezionale dell'Amministrazione, al quale corrisponde una situazione di interesse legittimo del singolo candidato, la cui tutela spetta al G.A ai sensi ex art. 63 del T.U.P.I., comma 4.


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Si configura la fattispecie di maltrattamenti in famiglia anche in caso di cessione della convivenza?

Pubblicato il: 12/02/2023

Attraverso la pronunzia n. 27173 del 6 giugno 2022 (depositata in data 13 luglio 2022), la Corte di cassazione, sezione sesta, si è occupata del tema del delitto di maltrattamenti in famiglia, ex art. 572 del c.p., qualora sia cessata la convivenza tra i soggetti coniugati, a seguito della separazione di fatto o di diritto degli stessi.
La problematica si poneva, in particolare, alla luce delle condotte persecutorie realizzate dal soggetto agente nel periodo successivo alla separazione legale o fattuale dei coniugi, le quali potevano integrare, in astratto, la più lieve fattispecie del delitto di atti persecutori, di cui all’ art. 612 bis del c.p., anche nella ipotesi aggravata di cui al comma 2.

In particolare, difatti, il comma 2 dell’articolo 612 bis del Codice penale prevede una circostanza aggravante del delitto di atti persecutori, ove, in particolare, “la pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici”.
Così che, in caso di condotte illecite attuate dall’ex convivente, ci si interrogava in giurisprudenza circa la sussumibilità della fattispecie concreta nel delitto di cui all’art. 572 c.p., ovvero in quella di cui all’art. 612 ter, comma 2, del Codice penale (ossia, nella sua forma aggravata).

Sul punto vi erano due diversi orientamenti in giurisprudenza.
Secondo un primo orientamento, era necessario sussumere la condotta de quo all’interno del delitto di cui all’art. 572 c.p., anche qualora vi era stata interruzione del rapporto di convivenza: ciò in quanto i soggetti, seppur de facto separati, restavano comunque legati da un pregresso (ed ancora attuale, in caso di figli) rapporto familiare, il quale rendeva necessariamente punibili le condotte secondo la fattispecie di reato più grave di maltrattamenti in famiglia.

Secondo, invece, altro orientamento giurisprudenziale, al momento della cessazione del vincolo di coniugio o convivenza, le condotte erano da sussumere nella più lieve fattispecie del delitto di atti persecutori, di cui all’art. 612 ter c.p., nella forma aggravata di cui al comma 2: ciò alla luce del fatto che la persona offesa, in tal caso, subisce i maltrattamenti al di fuori dell’area della casa coniugale, e ciò rende non adatta la sussumibilità del caso di specie nel delitto di cui all’art. 572 c.p..
Secondo una parte più rigida della dottrina, applicare la fattispecie dei maltrattamenti in famiglia alle condotte poste in essere al di fuori del vincolo familiare, integra una situazione di analogia in malam partem: non è possibile, difatti, estendere la fattispecie in esame fino al punto da ricomprendervi situazioni (ormai) extra familiari.

Al sol fine di dirimere il contrasto giurisprudenziale, è intervenuta la Corte di Cassazione, la quale, attraverso la sentenza in esame, ha indicato il discrimen tra le due fattispecie di reato in caso di interruzione del pregresso rapporto di convivenza familiare.
In particolare, secondo il Supremo Consesso, la distinzione tra le due fattispecie di reato va effettuata tenendo conto non del momento del perfezionamento della condotta (prima o dopo la convivenza), bensì dello status affettivo vigente tra le parti al momento del fatto illecito: in particolare, difatti, solo in caso di separazione definitiva tra i coniugi, definita attraverso sentenza di divorzio, le condotte di maltrattamenti poste in essere dopo la cessazione della convivenza sono da sussumersi nella fattispecie di atti persecutori aggravata, di cui all’art. 612 ter, comma 2, c.p..
In tutti gli altri casi, invece (si pensi alle situazioni di mera separazione di fatto, o anche legale, tra i coniugi), la condotta illecita va ascritta alla più grave fattispecie di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572 del codice penale.

In particolare, sulla scia della pregressa giurisprudenza di legittimità (Cass. pen. sez. VI, 19 dicembre 2017, n. 3087), la Corte di Cassazione ha ivi ricordato che le condotte vessatorie attuate ai danni del coniuge non più convivente, a seguito di separazione legale o di fatto, integrano la fattispecie di reato di maltrattamenti in famiglia, non essendo venuti ancora meno i vincoli di solidarietà e reciproco rispetto di origine matrimoniale.
A contrario, in caso di censura di qualsiasi rapporto familiare ed affettivo, stante la sentenza di divorzio, così come ricordato dalla maggiore e granitica giurisprudenza di legittimità pregressa (Cass. pen., sez. V, 4 maggio 2016, n. 41665; Cass. pen., sez. VI, 24 novembre 2011, n. 24575), le condotte illecite successive al periodo di convivenza sono da sussumere all’interno della fattispecie di atti persecutori aggravata (Cass. pen., sez. VI, 8 luglio 2014, n. 33882).


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La rilevanza penale dei derivati della cannabis: il caso delle coltivazioni a basso contenuto di THC

Pubblicato il: 12/02/2023

Con una interessante pronuncia (sentenza n. 5727 del 17 gennaio 2023, depositata il 10 febbraio 2023), la Terza Sezione penale della Corte di cassazione si è pronunciata sulla persistente rilevanza penale della condotta di coltivazione ex art. 73 del T.U. stupefacenti di piante ed inflorescenze appartenenti al genus dei cannabinoidi, nonostante il livello di sostanza drogante (c.d. THC) sia inferiore ai valori indicati dall'art. 4, commi 5 e 7, L. n. 242 del 2016. Fuoriescono dal perimetro di tipicità della norma esclusivamente quelle condotte in cui, a seguito di una valutazione effettuata dal giudice di merito in concreto, la sostanza appaia priva di ogni efficacia drogante o psicotropa in omaggio al principio di offensività ex art. 49 del c.p.. Il decisum della Cassazione si comprende alla luce del complesso normativo indicato per la coltivazione di cannabinoidi c.d. autorizzata.

Segnatamente, come già osservato dalle Sezioni Unite Caruso, la legge n. 242 del 2016, orientata a promuovere la coltivazione agroindustriale di canapa delle varietà ammesse, consente a determinati coltivatori autorizzati dalla legge di impiantare coltivazioni di cannabis sativa alla fine di ottenere prodotti come fibre, carburanti e prodotti agroalimentari ma non hashish e marijuana (art. 2, comma 2, della legge n. 242 del 2016). Tale impianto normativo è coerente con la disposizione ex art. 26 del T.U. stupefacenti comma II, il quale contiene una eccezione al divieto di coltivazione della canapa nel territorio nazionale, selezionando le piante la cui coltivazione è vietata. Tale norma, rinviando all’art. 14 del T.U. stupefacenti, che detta i criteri per la formazione delle tabelle che individuano la soglia di rilevanza penale, prevede un'eccezione per la c.d.canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali. Alla luce del quadro normativo indicato, dunque, la coltivazione industriale di cannabís sativa promossa dalla legge 242 del 2016, rientra tra le coltivazioni di canapa per la produzione di fibre o di altri usi industriali, diversi da quelli farmaceutici, per le quali non opera il divieto di coltivazione di cui all'art. 26, d.P.R. n. 309/1990.

In forza di queste considerazioni, è possibile comprendere l’articolato percorso argomentativo della Cassazione che ha appunto attribuito natura tassativa alle categorie di prodotti di cui all'art. 2, comma 2, legge n. 242 del 2016, che possono essere ottenuti dalla coltivazione agroindustriale di cannabis sativa L.. Ciò perché si tratta di prodotti che derivano da una coltivazione che risulta consentita solo in via di eccezione, rispetto al generale divieto di coltivazione della cannabis, penalmente sanzionato. Alla luce di tali considerazioni, la commercializzazione di cannabis sativa light o dei suoi derivati, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, integra dunque il reato di coltivazione ex art. 73 del T.U. stupefacenti co. 1 e 4, anche dalla suddetta normativa. La disposizione in commento, infatti, procede ad incriminare la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivati della cannabis, senza operare alcuna distinzione rispetto alla percentuale di THC che deve essere presente in tali prodotti, attesa la richiamata nozione legale di sostanza stupefacente, che informa l’art. 13 del T.U. stupefacenti e l’art. 14 del T.U. stupefacenti.

Pertanto, deve rilevarsi che la cessione, la messa in vendita ovvero la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, di prodotti, diversi da quelli espressamente consentiti dalla legge n. 242 del 2016, derivati dalla coltivazione della cosiddetta cannabis light, integra gli estremi del reato ex art. 73, del testo unico citato poichè vale ad integrare il tipo legale individuato dalle norme incriminatrici. Da ultimo, la Suprema Corte ricorda che la rilevanza penale della condotta di coltivazione è comunque subordinata alla verifica della concreta offensività della condotta che, nel caso di specie, avviene attraverso l’analisi della reale efficacia drogante delle sostanze stupefacenti oggetto di cessione.


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